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Chi ha paura del negoziante straniero?

Cresce il numero delle imprese individuali con titolare extracomunitario. Sono soprattutto attività legate al commercio, fisso e ambulante. Che contribuiscono a mutare il paesaggio urbano delle città e per questo sono ostacolate da molti amministratori locali, in particolare lombardi. Anziché apprezzare il fatto che vetrine illuminate e negozi aperti vivacizzano anche i quartieri difficili, prevale una visione della sicurezza come rimozione dei luoghi di incontro e degli spazi di socialità dei gruppi considerati pericolosi. Anche a costo di desertificare le strade.

 

Nonostante la crisi, le imprese individuali con un titolare immigrato extracomunitario crescono: 37.645 quelle nate nel 2009, secondo il Rapporto Unioncamere 2010. (1) Sono complessivamente 251mila, il 4,5 per cento in più rispetto al 2008.

DIVIETI SELETTIVI

Anche le imprese individuali degli immigrati risentono della crisi, giacché il dinamismo delle nuove nascite è rallentato e le cessazioni sono aumentate. A volte l’’avvio di una piccola attività può anche essere un modo per sottrarsi alla disoccupazione e per non perdere il permesso di soggiorno. Interessante però il fatto che prosegua un trend che diversifica il profilo della popolazione immigrata e modifica il paesaggio urbano di città grandi e piccole. In effetti, sono le attività legate al commercio, fisso e ambulante, a capeggiare la graduatoria, con 108mila aziende, pari al 43 per cento di tutte quelle che hanno un titolare immigrato, seguite dalle costruzioni, con 68mila ditte.
La Lombardia è la prima regione, con quasi 46mila titolari, pari al 18,3 per cento del totale. Proprio qui però la politica sta lanciando segnali che vanno in un’’altra direzione. Dopo le regolamentazioni restrittive per i phone-centers e quelle dello scorso anno sull’’artigianato alimentare, che hanno colpito di fatto principalmente i venditori di kebab, ora è il comune di Milano a limitare gli orari di apertura dei negozi nei quartieri sensibili, prima via Padova, poi via Paolo Sarpi e probabilmente altre zone a marcata concentrazione di commerci “etnici”. Nessuno dubita che siano questi il bersaglio dei divieti, non formulabili esplicitamente in termini xenofobi.
Anziché apprezzare il fatto che vetrine illuminate e negozi aperti immettono vivacità e circolazione di persone in quartieri difficili, prevale una visione della sicurezza come rimozione dei luoghi di incontro e degli spazi di socialità dei gruppi considerati pericolosi, anche a costo di desertificare le strade. Nello stesso tempo si assesta un colpo allo sviluppo di attività economiche che non piacciono ai decisori politici, soprattutto perché rendono più visibili gli immigrati.
Se si sospetta che per esempio le sale di massaggi cinesi, in grande sviluppo in città, nascondano forme di prostituzione, si possono colpire con le leggi che vietano lo sfruttamento sessuale, accertando eventuali reati con opportuni controlli. Così per altri negozi, se sono il paravento di attività illecite. Vietare le aperture serali colpisce invece l’’economia e il dinamismo urbano: quella dimensione di vitalità che da sempre rende attraenti le metropoli. In molte città del mondo, sono proprio i negozi degli immigrati, tra l’’altro spesso aperti fino a tardi, a ravvivare quartieri popolari, a introdurre prodotti esotici, a diversificare con insegne e colori inusuali il paesaggio urbano. (2)
In primavera, qualcuno aveva poi proposto in Parlamento di imporre esami di italiano agli stranieri che intendono aprire un negozio, nonché di vietare le insegne in lingue non parlate nell’’Unione Europea. La prima norma appare pleonastica: chi intraprende è generalmente in grado di comunicare con i suoi clienti, altrimenti li perde. Di solito, come ci dicono le ricerche sul tema, dispone di una consistente anzianità migratoria e di un buon livello di istruzione. Il divieto di insegne straniere dà forma a un sentimento strisciante, che viene ancora una volta coltivato e rafforzato: ciò che si vuole rifiutare è la trasformazione anche simbolica degli spazi quotidiani che l’’immigrazione comporta. Tanto più l’’immigrazione che intraprende.
Mi diceva nei giorni scorsi un alto esponente dell’’associazionismo del commercio: “ma noi dovremmo favorire chi vuole intraprendere, non ostacolarlo”. È ciò che avviene in tutti i paesi sviluppati. In Italia, quando ci sono di mezzo gli immigrati, facciamo fatica a essere normali.
(1) Traggo questi dati dall’’agenzia on line “Redattore Sociale” del 6 maggio 2010.
(2) Ho approfondito questi aspetti in M. Ambrosini, Richiesti e respinti, Milano, Il Saggiatore, 2010.

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  1. Luca T.

    Sono certo che le imprese straniere arricchiscono il nostro Paese dal punto di vista estetico, ma non fiscale o previdenziale. Solo per fare l’esempio dei cinesi, le loro attività commerciali sono sempre interessate da impiego di lavoratori in nero, o irregolari in base a fittizzi contratti part-time (dichiarano meno ore di quelle effetuate dal prestatore, per non parlare dell’utilizzo di fatture per operazioni inesistenti. La cronaca degli ultimi 15 anni dice questo. Ma i nostri politici ci rassicurano che non è così. Intanto dove attechisce la comunità commerciale cinese, sparisce la comunità commerciale italiana. Occhio! Le regole sono uguali per tutti! e vanno rispettate da tutti.

  2. Arturo

    ll commento precedente, meglio di qualsiasi spiegazione sociologica, mette in risalto come gli istinti più bassi dell’individuo (il razzismo, l’invidia, il disprezzo del "diverso) vengono a galla ogniqualvolta ci si trova di fronte a capacità individuali superiori alle proprie. Non è affatto vero che dove arrivano i cinesi gli italiani se ne devono andare. E quanto a furbizie del tipo affitti in nero, fatture false e evasione fiscale, le fanno spesso e volentieri anche gli italiani. I cinesi arrivano qui, fiutano l’aria che tira e si abituano all’andazzo corrente. Hanno voglia di lavorare da buttar via, sono operosi, frugali e riservati (non li vedrete mai con un Rolex da 3000 Euro o lo yacht a Portofino), per questo hanno successo dove altri falliscono. Dovremmo cercare di imparare da loro, anziché disprezzarli e rendere loro la vita impossibile.

  3. Alessandro Zanardo

    Condividendo al 100% il commento di Arturo, va comunque ricordato che il formarsi di quartieri cinesi, arabi o pakistani non aiuta l’integrazione e anzi costruisce dei quasi-ghetti, che incentivano la divisione e il razzismo. Gli esercizi "etnici" nelle metropoli e soprattutto nelle periferie insidiano i negozi nostrani per 2 motivi: i prezzi mantenuti ai limiti della concorrenza (sleale?) grazie non solo alla "gran voglia di lavorare" ma anche a pratiche fiscali e/o sanitarie documentate dalle sanzioni, e intuibili entrando nei negozi… e soprattutto la clientela che cambia diventando qui cinese, là bengali e così via, in comunità molto chiuse, dove la lingua italiana (e con essa le norme civili e sociali europee) non hanno accesso. Ben vengano quindi i provvedimenti che cercano di impedire i concentramenti, favorendo l’apertura degli italiani agli stranieri e anche viceversa.

  4. lorenzo

    Parlare di esami di italiano è senz’altro pleonastico come dice l’articolo. Richiedere un titolo di studio italiano a chi vuole aprire un’attività nel nostro Paese è secondo me un atto sensato. Aiuta la creazione di un sistema economico omogeneo e aperto, condizione sensata sia dal punto di vista economico, che sociale e culturale. Basterebbe passare per i Centri Territoriali Permanenti, già a disposizione gratuita di cittadini italiani e stranieri.

  5. Alberto Cottica

    Vivo a Milano in zona Dergano-Maciachini, ad alto tasso di immigrazione (24.000 residenti stranieri in Zona 9) e con molti negozi etnici. Per chiunque viva lì, italiano o straniero, i negozi e i servizi alla persona gestiti da stranieri fanno la differenza: il sarto cinese, il parrucchiere bengalese, il muratore rumeno, il ristorantino turco sono praticamente sempre aperti, praticano prezzi onesti e hanno voglia di lavorare. Oltre che in genere buoni microimprenditori, credo che queste persone siano le nostre migliori alleate per rendere le strade piacevoli e sicure. È vero che davanti ai kebabbari di via Imbonati sostano spesso egiziani che hanno la sgradevole abitudine di fare commenti sulle ragazze che passano (mia moglie parla bene arabo e li ha colti in castagna più di una volta), ma è anche vero che i gestori possono avere un’influenza calmante, dicendo loro "guarda che le persone si offendono, o la smetti o te ne vai dal mio ristorante, non voglio grane". Per queste ragioni, credo che l’atteggiamento del Comune di Milano sui phone center, sul commercio all’ingrosso delle imprese cinesi in via Paolo Sarpi e sugli orari di apertura dei kebab sia miope e autolesionista.

  6. Mirko P.

    Per dirla in parola povere dal mio punto di vista è normalissimo che al crescere dell’immigrazione cresca anche il numero di imprenditori e commercianti immigrati o figli di immigrati, mi stupirei del contrario. La logica conseguenza di quella che definirei una sorta legge naturale è che, nonostante tutti gli ostacoli che si possano mettere per rallentarla, la tendenza proseguirà, se non altro perchè l’effetto soglia è già stato superato e la visibilità crea idee in altri a cui non erano venute. E poi è inutile lamentarsi quando ci sono intere vie di negozi gestiti da stranieri dato che a vendergli il negozio sono stati italiani; questi ultimi potevano venderli ad altri italiani.. ma i soldi si sa non hanno colore, o se lo hanno è verde.

  7. jaska

    Ho detto tutto nel titolo. Le regole sono uguali per tutti, e per esserlo concretamente vanno fatte rispettare. Non ce la possiamo prendere con intere categorie di soggetti (generalizzando lungo confini etnici) quando il problema che li accomuna è l’atteggiamento, e non l’etnicità. Per restare nel campo delle attività imprenditoriali, le regole vanno fatte rispettare verso tutti gli imprenditori, e non soltanto verso i "cinesi", i "bengalesi", gli "egiziani"…

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