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Un civil servant al ministero dell’economia

Tommaso Padoa-Schioppa è stato ministro dell’Economia e delle finanze solo per un biennio, vivendo la breve parabola del secondo Governo Prodi. Egli lascia però un’eredità politica ed etica di grande spessore. Il titolo del suo ultimo libro, “La veduta corta”, riassume bene la sua diagnosi sui mali del paese. Da circa 12 anni l’Italia cresce poco e comunque molto meno dei paesi occidentali con cui ci si confronta. Ciò deriva da una diffusa miopia politica che spinge leader ed elettori a concentrarsi sui traguardi immediati, condannandosi al piccolo cabotaggio della politica degli annunci e delle finte riforme. Le regole ferree della globalizzazione impongono invece una crescita stabile di produttività che l’Italia potrà ottenere solo seguendo ambiziose ed a volte dolorose traiettorie di modernizzazione. Più investimenti in capitale umano e in infrastrutture, servizi pubblici più efficienti, tassazione più equa e meno evasione fiscale, giustizia più rapida, maggiore spazio alla concorrenza e al merito. Questi gli ingredienti della ricetta, all’insegna della preminenza dei problemi di struttura su quelli di congiuntura, che egli aveva cominciato ad elaborare ed applicare.

RIFORME POCO CONOSCIUTE

La sua prima innovazione era tesa a rendere il legislatore più consapevole e la burocrazia più responsabile. L’articolazione del bilancio dello stato in un numero limitato di missioni e programmi di chiaro contenuto economico e con flessibilità interna, al posto di un’indecifrabile raccolta di piccoli capitoli indipendenti, è stata una riforma importante, anche se rimasta quasi sconosciuta all’opinione pubblica. Dal lato delle entrate, poi, si fidava delle misure contro l’evasione del viceministro Visco: misure efficaci, benché impopolari, come dimostra la loro riproposta da parte dell’attuale governo che all’atto dell’insediamento aveva menato gran vanto nell’abolirle. Dal lato delle spese, infine, l’obiettivo dichiarato era di “spendere meno, spendere meglio”. Ma egli non credeva ai tagli lineari, tanto clamorosi nell’annuncio quanto ingannevoli e dannosi nei fatti. L’innovazione di metodo per l’Italia che Padoa-Schioppa volle introdurre consisteva nella spending review, già applicata con successo all’estero. Si trattava di effettuare una sistematica e approfondita revisione delle strutture e delle procedure degli apparati ministeriali e di trovare il modo di svolgere le funzioni pubbliche con una struttura più leggera e procedure semplificate. Il lavoro di analisi era stato affidato ad un’apposita Commissione tecnica per la finanza pubblica, poi abolita dal nuovo Governo, che in breve tempo, validamente aiutata dal nuovo Servizio studi della Ragioneria dello stato, aveva fatto emergere una serie di proposte incisive: accorpamento e specializzazione dei tribunali, riduzione e nuovo ruolo delle prefetture, più rapide e coerenti procedure per le opere pubbliche, flessibilità nell’organizzazione scolastica in ambito regionale, “patto per l’università” con maggiori fondi ma distribuiti con criteri meritocratici, riequilibrio dell’impiego pubblico tra Nord e Sud, ecc. Tutte misure con scarso impatto immediato sulla spesa ma capaci in pochi anni di rendere l’apparato pubblico un motore e non un freno alla crescita.
Varie indicazioni specifiche emerse da tale analisi sono state poi recepite dal successivo governo. Però manca ancora la “veduta lunga e coerente”, capace di introdurre in tutta la gestione della cosa pubblica e nel paese, anche attraverso riforme bipartisan, “efficienza, stabilità ed equità“, come recita un altro libro di Padoa-Schioppa. Anche perché servirebbe a tale scopo, in aggiunta a valide ricette tecniche, una tensione morale che oggi proprio non si ravvisa. Nella sua ingenuità di civil servant (e in questo caso è proprio necessario ricorrere al lessico inglese per non sollevare ironia), Padoa-Schioppa, erede della cultura mitteleuropea respirata negli anni della giovinezza a Trieste e allevato alla severa scuola della Banca d’Italia, era scandalizzato nel sentire degradato il rapporto tributario sui cui si fonda lo stato liberale, ossia la migliore costruzione politica sin qui raggiunta dall’umanità, a un “mettere le mani nelle tasche degli italiani”. Reagiva parlando in modo provocatorio della bellezza del pagare le tasse, come segno di consapevole ed orgogliosa appartenenza alla comunità nazionale: il modo migliore per perdere voti nell’Italia di oggi, ma anche un passaggio ineludibile per costruire un paese migliore.

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  1. gino

    Sono totalmente d’accordo con l’autore di questo articolo.

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