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UNA BOMBA SUL FEDERALISMO FISCALE

Il percorso di attuazione del federalismo fiscale sbatte contro il muro del centralismo, vale a dire dei modi in cui è stata decisa la manovra di aggiustamento dei conti pubblici varata dal Governo. Nessun coinvolgimento delle Regioni e degli enti locali. E, invece, un’imposizione di tagli di spesa che costringe le autonomie a una stretta finanziaria molto penosa.

La manovra di aggiustamento dei conti pubblici varata dal governo (DL 98/2011) è esplosa come una bomba sul percorso di attuazione del federalismo fiscale. È  certamente un problema di risorse tagliate che costringono regioni ed enti locali a una stretta finanziaria assai penosa. Ma lo è ancor di più per i modi con cui la manovra è stata decisa: un perfetto esercizio di centralismo, a dispetto del pieno coinvolgimento delle autonomie nelle decisioni di finanza pubblica che la riforma del federalismo fiscale ha posto come punto essenziale.

TAGLI ALLE AUTONOMIE

 La manovra finanziaria colpisce pesantemente le autonomie. Accanto agli interventi sulla sanità (2,6 miliardi e 5,1 miliardi di minori spese rispettivamente nel 2013 e nel 2014) e ad altri interventi minori, sono i risparmi di spesa collegati all’inasprimento del patto di stabilità interno a dare il contributo maggiore delle amministrazioni locali alla correzione dei conti pubblici. Questo apporto può essere meglio valutato se visto in connessione con l’analoga stretta imposta con l’intervento correttivo dello scorso anno (DL 78/2010). La tabella 1 mostra il miglioramento dei saldi di indebitamento della pubblica amministrazione rispetto agli andamenti tendenziali richiesto via patto di stabilità interno ai diversi comparti dell’amministrazione locale dalle due ultime manovre di finanza pubblica. La manovra del 2010 aveva imposto a Regioni ed enti locali un contributo alla riduzione dell’indebitamento netto di 6,3 miliardi nel 2011 che salivano a 8,5 miliardi nel 2012 e nel 2013, da realizzare per comuni e province mediante un taglio dei trasferimenti statali. La manovra di quest’anno estende anche agli anni 2014 (e successivi) le misure di contenimento già previste per il 2013 dal precedente intervento, ma ci aggiunge del nuovo. Infatti è richiesto un incremento di manovra per il comparto delle amministrazioni locali di 3,2 e 6,4 miliardi rispettivamente per il 2013 e il 2014 più gli anni successivi. (1)

Una volta stabiliti questi, non certo agevoli, obiettivi complessivi di aggiustamento, la manovra cerca di sparigliare il fronte degli enti decentrati prevedendo, per il loro riparto tra i singoli enti, un’inedita distinzione tra “virtuosi” e “viziosi”. In particolare si stabilisce un insieme di parametri di virtuosità (ben dieci più, in futuro, anche indicatori quanti-qualitativi dei servizi forniti e un coefficiente di correzione per tener conto della dinamica di miglioramento di ciascun ente) che, combinati tra loro mediante pesi ancora tutti da determinare, dovrebbero consentire di collocare ciascuna regione e ciascun ente locale in una delle quattro classi di virtuosità previste per ogni livello di governo. Mentre gli enti che risulteranno nella classe più virtuosa non concorreranno nel 2013 e nel 2014 (e anche negli anni seguenti) agli obiettivi di aggiustamento richiesti dalle due manovre (quelli della tab. 1), sugli altri enti, quelli “viziosi”, cadrà l’intero peso dell’aggiustamento. (2)

LA MORTE DEL FEDERALISMO

Le rappresentanze delle autonomie territoriali e le opposizioni parlamentari hanno gridato alla “morte del federalismo”, criticato la manovra anzitutto per la sperequazione nella misura dell’aggiustamento richiesto ai diversi attori istituzionali: Regioni ed enti locali ne uscirebbero assai più penalizzate rispetto allo Stato e agli enti di previdenza (che però possono giocare un ruolo necessariamente limitato data la rigidità della spesa pensionistica). Guardando ai numeri, gli interventi sulle amministrazioni locali (inclusi quelli sulla sanità più le altre misure minori) rappresentano a regime (cioè nel 2014) poco meno del 42 per cento della manovra complessiva (28 miliardi), se escludiamo da questa il taglio delle agevolazioni fiscali da 20 miliardi che costituisce un blocco a sé.
È tanto? È poco? Al di là delle posizioni di bandiera, affrontare questa questione significa avventurasi su un terreno particolarmente scivoloso perché, anche sul piano concettuale, diversi possono essere i criteri e gli indicatori utilizzati per valutare il “giusto” concorso delle varie componenti della pubblica amministrazione all’aggiustamento dei conti pubblici: la loro partecipazione alla formazione dell’indebitamento netto della pubblica amministrazione (ma con riferimento a quale saldo? Al lordo o al netto dei trasferimenti ricevuti dalle amministrazioni locali?), il loro peso nella spesa pubblica primaria, o altro ancora. A titolo di esempio, il Servizio bilancio del Senato ha evidenziato che le misure di aggiustamento addossate dalla manovra al complesso delle autonomie territoriali riuscirebbe semplicemente a stabilizzare la loro spesa primaria da qui al 2014 rispetto agli andamenti tendenziali fortemente crescenti (sempreché valutati correttamente) ipotizzati nel Documento di economia e finanza dello scorso aprile. Situazione speculare nel caso dello Stato, che invece vedrebbe le sue spese finali ridursi costantemente come risultato dell’impatto finanziario della sua quota di manovra.

VALUTARE LE PRIORITÀ DELL’INTERVENTO

Più in generale, per ripartire la manovra complessiva tra i diversi livelli di governo non si dovrebbe usare il bilancino, cercando il collegamento a un qualche indicatore storico o ad una qualche formula, ma si dovrebbero valutare a tutto campo le priorità dell’intervento pubblico nelle sue varie articolazioni attraverso un processo decisionale il più possibile partecipato e condiviso. Ma anche tenendo conto che, quando si interviene sui servizi essenziali, come sono in gran parte quelli affidati agli enti territoriali, si incide direttamente sui diritti soggettivi e pertanto i tagli alle risorse vanno decisi facendo emergere con chiarezza le conseguenze per i cittadini e assumendosene la responsabilità politica.
È proprio questo aspetto il vero punto critico della manovra di quest’anno. È calata dall’alto, recapitata a Regioni e comuni senza che questi siano stati minimamente coinvolti nella sua elaborazione. Si dirà: i mercati incalzavano, le società di rating aspettavano minacciose alla porta, bisognava confezionare in tempi rapidi una manovra credibile, non si poteva fare altro. Sì, però si sarebbe dovuto tener conto che l’attuazione del federalismo fiscale di questi ultimi mesi ha cambiato i modi del coordinamento della finanza pubblica tra Stato e autonomie e, proprio per dare credibilità alla manovra, di questa novità istituzionale si sarebbe dovuto far tesoro. I decreti che danno attuazione alla riforma del federalismo fiscale individuano nella Conferenza permanente per il coordinamento della finanza pubblica la sede nella quale i vari livelli di governo dovrebbero concorrere alla definizione degli obiettivi di finanza pubblica per comparto, e prevedono “processi di coordinamento dinamico” della finanza pubblica per dare sostanza al raccordo tra federalismo fiscale e strumenti della programmazione e del bilancio in materia di livelli essenziali delle prestazioni e di obiettivi di servizio. Purtroppo, la Conferenza permanente non è stata ancora insediata e delle norme di coordinamento dinamico non se ne è neppure vista l’ombra. Insomma tante belle parole, che però non sembrano essere arrivate in via XX Settembre.

(1)   Questa volta però si è fortunatamente evitato di prevedere anche il taglio dei trasferimenti statali agli enti locali (come nella manovra dello scorso anno), scongiurando così un intervento sul meccanismo di fiscalizzazione dei trasferimenti statali e loro perequazione da poco messo in piedi, e con grande fatica, con il decreto sul federalismo municipale.
(2)  
La questione dell’individuazione degli indicatori utilizzati per selezionare gli enti più virtuosi ha acceso discussioni infinite prima e dopo l’approvazione della manovra. Durante l’esame parlamentare il set di parametri è stato modificato perché quello inizialmente proposto sembrava penalizzare alcuni comuni vicini alla Lega. Più in generale, al di là delle ovvie polemiche che accompagnano qualsiasi procedura di separazione tra “vincitori” e “vinti”, alcuni indici (come l’incidenza del personale sulla spesa corrente, o il tasso di copertura dei costi dei servizi mediante tariffe) sono stati fortemente criticati perché eccessivamente vincolanti l’autonomia comunale nella determinazione delle modalità di produzione, oppure perché difficilmente applicabili a partire dalle informazioni effettivamente disponibili.

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LO SPETTO DEL 1992: RISPOSTA AI COMMENTI E ALCUNE PRECISAZIONI

  1. bob

    Esimio Prof. ma ancora ci viene a parlare di federalismo. La aperte sana e attiva di questo Paese a questa autentica bufala non ha mai creduto, soltanto una legge simile a quella fascista del ’40 ha dato la possibilità ad un masaniello di fare ( come sta facendo adesso con la carnevalata dei ministeri a Monza) questa follia. Posso capire i miseri politici attuali, riesco a capire molto meno Lei con tutto il rispetto, che vuole parlare seriamente di una farsa tragicomica. Roberto piccolo imprenditore

  2. antonio petrina

    La legge sul federalismo buona o cattiva che sia è legge , come quella sul pareggio di bilancio statale (Amato): ora con le finanze riformate e con il collaudo da fare sul nuovo motore si entra in questo percorso ad ostacoli: è durissima farcela! La ripresa è compito dei piccoli e medi imprenditori di cui una p.a. snella e con il nuovo motore deve agevolare il cammino e di cui solo l’ottimismo degli operatori deve essere la stella polare.

  3. bob

    “Perché mai un investitore dovrebbe puntare su un Paese il cui governo, mentre il contagio divampa, dibatte su qualche stanzone a Monza?” Questo pensiero è estratto dal fondo del Corriere della Sera di Sabato 30. Allora ritornando al suo intervento le chiedo, di cosa parliamo?

  4. Rino

    Forse i leghisti “rdicali” contano su un bel default come occasione per rinnovare la spinta indipendentista, altro che federalismo fiscale…

  5. Luigi Idili

    E’ vero: il federalismo è morto. Ma non è un problema dato che non è mai nato. Non a caso, considerato che la Costituzione di federalismo non parla affatto. Parla invece di autonomia forte degli enti territoriali, ma in un quadro di coordinamento della finanza pubblica e senza aggravi (oggi dovremo dire con risparmi) per la spesa pubblica. Ecco dunque su cosa concentrarci per il prossimo futuro: armonizzare, coordinare, monitorare. La crisi finanziaria ci aiuta a mettere a fuoco questo, come vero obiettivo del cosiddetto federalismo fiscale: rivedere le filiere di spesa per marcrosettori percorrendo in veriticale tutta la struttura istituzionale: dallo Stato ai Comuni, razionalizzando e diminuendo gli enti. Allo stesso tempo investendo massicciamente sulla lotta all’evasione fiscale e contributiva. Questi sono compiti della Conferenza permanente, che dovrebbe essere istituita e valorizzata, come giustamente puntualizza Zanardi.

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