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OPEN SERVICE NELL’AGENDA DIGITALE

Il tema degli open data ha risvolti tecnici e organizzativi piuttosto complessi. Se il concetto fosse esteso per realizzare degli open service, il risultato sarebbe particolarmente importante. Perché attraverso la condivisione intelligente e standardizzata di dati e funzioni elementari potrebbe costituire un volano per lo sviluppo di servizi evoluti al cittadino e alle imprese. Sarebbe una svolta epocale per le amministrazioni pubbliche. E servirebbe a stimolare quella domanda di banda larga che spesso appare ancora debole e immatura. (Read the english version).

Gli open data sono uno degli argomenti di discussione più diffusi e “di moda” in tema di innovazione delle pubbliche amministrazioni. La questione ha risvolti tecnici e organizzativi piuttosto complessi, ma è particolarmente importante perché può costituire un volano e un abilitatore per lo sviluppo di servizi evoluti al cittadino e alle imprese, stimolando nel contempo quella domanda di banda larga che spesso appare ancora debole e immatura (v. “La domanda per l’agenda digitale“).

I LIMITI DEGLI OPEN DATA

L’espressione “open data” identifica “tipologie di dati liberamente accessibili a tutti, senza restrizioni di copyright, brevetti o altre forme di controllo che ne limitino la riproduzione”. I promotori degli open data ritengono che molte fonti informative delle pubbliche amministrazioni e delle aziende pubbliche debbano essere rese disponibili secondo queste modalità ai cittadini e alla società in generale, tipicamente attraverso siti web o portali. In questo modo, oltre a ottenere una maggiore trasparenza nel funzionamento delle pubbliche amministrazioni, si abilitano cittadini, imprese e altre amministrazioni a sviluppare applicazioni che, elaborando questi dati, siano in grado di fornire servizi a valore aggiunto alla società nel suo complesso.
Questo approccio presenta una serie di limiti:
– Mancanza di standard: gli open data vengono offerti secondo una molteplicità di formati e ciò certamente non rende agevole la loro consultazione e valorizzazione (molto spesso sono file di dati in formato testo, Excel o Cvs).
– Mancanza sostanziale di significato: i dati sono offerti in modo “grezzo” o con chiavi di lettura deboli. Risulta spesso difficile decodificare in modo agevole queste informazioni.
– Staticità: normalmente gli open data sono fotografie in un certo momento della base informativa di una amministrazione (snapshot).
– Unidirezionalità: lo strumento degli open data rende possibile consultare i dati di una amministrazione, ma non consente ad altri soggetti di aggiornare tali dati (se possibile e utile, secondo procedure concordate).
In sintesi, l’idea e l’ispirazione di fondo che motivano lo sviluppo di open data sono condivisibili e certamente nobili. Senza dubbio, vi sono casi dove questo approccio può essere utile e sufficiente per promuovere trasparenza, diffusione delle informazione e partecipazione attiva alla vita sociale.

UN CONCETTO DA ESTENDERE

Tuttavia, molti degli obiettivi che i sostenitori degli open data si prefiggono possono essere raggiunti solo affrontando in modo organico e approfondito alcune questioni chiave. Alcune di esse (in particolare, aspetti relativi a standardizzazione e significato delle informazioni) hanno a che fare con il consolidamento e lo sviluppo stesso del concetto di open data; altre richiedono necessariamente una estensione di tale concetto e l’introduzione di forme più sofisticate di gestione e condivisione delle informazioni.
Cosa servirebbe e perché?
Il concetto di open data dovrebbe essere esteso per realizzare ciò che potremmo chiamare open service. Un open service rende disponibile su Internet una funzionalità di un sistema informatico di una amministrazione (un “comando”) che può essere invocato direttamente da altri siti web o applicazioni per estrarre informazioni o per richiedere l’esecuzione di operazioni. In termini tecnici, si tratta di realizzare web services (dei frammenti di software) che “espongono” su Internet le funzionalità (e non solo i dati) di un sistema informatico.
Un esempio di applicazione che fa uso di open service potrebbe essere un sito con informazioni in tempo reale sull’infomobilità, che aggrega e elabora i dati sul traffico generati dai diversi gestori dei sistemi di trasporto (autostrade, mezzi pubblici, treno, aereo, eccetera). Tale sito non potrebbe essere realizzato se i gestori offrissero “solo” open data (una immagine statica con informazioni sullo stato di un sistema di trasporto in un certo momento). Se invece ciascun gestore realizzasse un open service capace di restituire su richiesta lo stato di quel sistema in quel momento, sarebbe possibile costruire applicazioni o siti che in tempo reale estraggono, integrano e elaborano in modo organico e tempestivo quelle informazioni. Inoltre, potrebbe essere possibile avere open service capaci di arricchire le banche dati dei singoli gestori con altre informazioni raccolte, per esempio, dagli utenti dei diversi sistemi di trasporto. È esattamente la sperimentazione attualmente in corso per Expo 2015 di Milano e che realizza un sistema diffuso di mash-up. (1)
Quali sono quindi i vantaggi degli open service?
Nei fatti, un open service incapsula e rende possibile accedere a open data e quindi, in una interpretazione minimalista, un open service può risultare ragionevolmente equipollente ad un open data. Ma il concetto di open service permette di andare oltre la pura messa a disposizione di un dato “grezzo”. Permette di definire la logica e il formato secondo i quali l’informazione viene estratta e resa disponibile, abilitando la costruzione di applicazioni dinamiche e interattive su internet e non solo l’esposizione e l’elaborazione statica di dati: è possibile invocare un open service ogni qual volta è necessario avere una visione aggiornata delle informazioni. Inoltre, è anche possibile avere open service che, in modalità controllate e monitorate, potrebbero aggiornare i dati presenti nella amministrazione e non solo accedervi.
Perché parlare di questo tema che sembra particolarmente specialistico e di dettaglio? Perché la scelta di sviluppare open service e non solo di offrire open data ha un profondo impatto sulle politiche e sulle strategie delle amministrazioni. Mentre è abbastanza semplice rendere disponibile open data su un sito web, è più complesso offrire un open service. In poche parole, creare open data è più facile, ma meno utile per lo sviluppo di applicazioni evolute e utili per gli utenti. Creare open service è più complesso e costoso, ma offre molte più possibilità e potenzialità.
In sintesi, per creare open service servono una regia e una strategia organizzativa e tecnologica che definiscano come creare e rendere disponibili i servizi. Per questo motivo, il tema dovrebbe essere uno degli snodi centrali di un programma di agenda digitale. L’obiettivo dovrebbe essere quello di creare un catalogo ricco di “open service” che permettano lo sviluppo di applicazioni e quindi servizi utili a amministrazioni, cittadini, imprese, la società in generale. Sarebbe un salto epocale per le amministrazioni e un passaggio decisivo per la realizzazione di servizi evoluti come le smartcity e le smart communities. È infatti attraverso la condivisione intelligente e standardizzata di dati e funzioni elementari che diviene possibile costruire servizi avanzati per i cittadini, le imprese, la società nel suo complesso.

(1) Mash-up: sito o applicazione web di tipo ibrido, cioè tale da includere dinamicamente informazioni o contenuti provenienti da più fonti.

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16 commenti

  1. Alessandro La Spada

    Al fine di “promuovere trasparenza, diffusione delle informazione e partecipazione attiva alla vita sociale”, perché non cominciamo a chiamare queste cose in italiano? Open data, open service, web service, smart city, smart communities, sono tutti termini che non hanno alcun significato nella nostra lingua e per definizione rendono più difficile la comprensione a un popolo già non particolarmente scolarizzato. Ottima in tal senso la decisione di chiamare la PEC “posta elettronica certificata”, tralasciando termini inglesoidi che fanno comparire solo un grosso punto di domanda sulla testa del cittadino o imprenditore a cui cerchi di spiegarli. Come si parla di “agenda digitale” diamoci anche la regola di parlare di “formati aperti”, “funzioni aperte”, “città intelligenti” eccetera. La chiarezza nel linguaggio è la prima condizione per discutere di qualcosa e coinvolgere un pubblico di massa.

  2. riccardo caramanna

    Semplicemente per comprendere a fondo questo articolo ci sarebbe bisogno di alcuni esempi concreti realizzati: quelle che con una brutta retorica vegono chiamate buone pratiche .

    • La redazione

      Non è facile nello spazio di un articolo di 3000-4000 battute illustrare un concetto e anche la sua esemplificazione pratica. Ovviamente, ha ragione nel dire che servono esempi. Ci sono progetti che si occupano di questi temi, come scrivevo nell’articolo. Non è facile raccontarli in questa sede.

  3. marco

    Penso che un paese come l’Italia debba investire massicciamente in questi settori che possono veramnete creare ricchezza e crescita e limitare le spese della inefficiente pubblica amministrazione italiana-peccato che in tv si continui a parlare solo di prodotti obsoleti e in difficoltà come le macchine con motore a scoppio! La banda larga è il presupposto necessario- la crescita della tecnologia genererà però automazione e conseguente diminuzione di occupazione in molti settori; bisognerà incominciare a ridistribuire in modo diverso la ricchezza senò ci ritroveremo con pochi ricchi, i programmatori delle macchine, e tanti poveri

  4. Pietro Blu Giandonato

    Prima di tutto un paio di obiezioni a quelli che lei definisce limiti degli open data:
    1. Mancanza di standard – Gli standard esistono eccome e sono stati definiti dall’autorevole W3C [1]. Tra i criteri di classificazione merita 3 stelle il dato che è distribuito secondo formati non proprietari (tra i quali il CSV da lei citato).
    2. Mancanza sostanziale di significato – Ciò che per lei è un limite, ovvero il dato “grezzo”, è in realtà una necessità, perché quanto più è grezzo e non manipolato il dato, tanto più possiede valore per essere rielaborato.
    3. Staticità – Un dato è per forza di cose una “fotografia” di un contesto, di una situazione, in un determinato momento temporale, e ciò non costituisce un limite, tutt’altro. Se il dato viene aggiornato periodicamente e ha un “timestamp” chiaro, nel tempo andrà a costituire una base di conoscenze di enorme valore.
    4. Unidirezionalità – E’ un falso problema, perché una PA responsabile della detenzione e dell’aggiornamento di un dato deve per forza di cose essere l’unica titolata alla sua gestione. Ciò non toglie che la PA stessa possa fare accordi con terzi per la sua manutezione e aggiornamento. [1] http://bit.ly/yocu0D

    • La redazione

      Innanzi tutto, a proposito del titolo del suo commento, non mi pare che nell’articolo si dica che i due approcci siano alternativi. Anzi, scrivo che in alcuni (tanti o pochi che siano) gli open data possono essere sufficienti.
      1. Il fatto che ci sia una classificazione dei formati non vuol dire che ci sia standardizzazione. Anche perché l’aspetto critico non è la sintassi secondo la quale il dato viene distribuito ma la sua semantica, cioè il suo significato.
      2. Credo si faccia confusione tra elaborazione del dato e possibilità di interpretarne il significato. Certo che ci sono casi in cui è utile distribuire il dato “grezzo”. Ma chi vi accede deve sapere come leggerlo. Se per esempio distribuisco dati sulla concentrazione di polveri sottili e non dico come il dato è stato raccolto, quale precisione ha, se è georeferenziato o meno (ho fatto solo alcuni banali esempi) il dato grezzo mi dice poco o niente. Non è possibile in questa sede raffinare la discussione. Ma credo non si debba confondere la disponibilità del dato non elaborato con il fatto che si debba poterlo leggere e comprendere.
      3. Ci sono applicazioni per i quali mi serve sapere il dato in “tempo reale” e non lo storico. Per esempio, se volessi costruire un sistema di infomobilità, i dati di traffico mi servono aggiornati al minuto o anche meno. Richiedere di pubblicare open data con questa frequenza, ancorché possibile, è tecnicamente inutile e inefficiente.
      4. Non capisco da cosa derivi questo giudizio assoluto di inutilità. Per esempio, potrebbero esserci sistemi di feedback o di acquisizione di informazioni da parte degli utenti che aiutano a leggere o arricchire i dati in possesso della PA. Comunque, è una possibilità ulteriore che non credo possa e debba essere esclusa semplicemente perché ci si vuole limitare ad usare open data.

  5. Federico Corno

    La sperimentazione relativa a Expo2015 ha particolarmente catturato la mia attenzione. Non ne ero a conoscenza: è possibile avere qualche ulteriore informazione in merito? Il tema delle ‘smart cities’ (di cui gli open services possono essere una componente chiave) inizia a subire una particolare inflazione di attenzione. Expo2015 potrebbe essere un’ottima occasione per testare sul campo alcune declinazioni del tema smart cities e open services.

    • La redazione

      La sperimentazione è in corso di sviluppo. Credo che i primi risultati saranno resi pubblici nel giro di qualche mese. Con risultati intendo le prime applicazioni offerte al pubblico che sfruttano i concetti di cui parlavo.

  6. massimo micucci

    Non sono un tecnico , ma la mia domanda è : una vasta scelta di open data dovrebbe servira anche a realizzare servizi a valore aggiunto anche dai privati. La logica di open service è che con i dati aperti si realizzino servizi dovuti o migliorati dal settore pubblico , o che siano erogati in modalità open? La mia preoccupazione è che adesso le varie società inhouse, in regime non concorrenziale si “inventino” servizi aggiuntivi da far pagare fuori mercato ai contribuenti. Sbaglio ?

    • La redazione

      Un open service deve essere offerto dal proprietario del dato/processo (la PA) secondo regole “open” (per esempio, l’equivalente di licenze CC). Un dato open così come un (web) service open può essere utilizzato da chiunque rispetti le regole di uso del dato o servizio, sia esso un altro ente pubblico o un privato. In questo senso, non vedo grosse differenze concettuali tra dato open e servizio open. Per cercare di spiegare meglio il concetto di web service, aggiungo che tecnicamente, un web service (open o no) non è una funzionalità direttamente utilizzabile da un utente finale, ma un “comando” (i tecnici perdonino questa mia banalizzazione) richiamabile da un sito web o da una applicazione. Sono queste ultime ad interagire con l’utente vero e proprio.

  7. Michele C.

    Nel paragrafo “Limiti…” si parla tra parentesi del formato di documento “Cvs”, mentre ovviamente si tratta del formato “Csv”.

  8. Pietro Monti

    Non voglio confutare i “limiti” perché non credo nella “competizione”. Gli O.D. rappresentano un’opportunità di sviluppo di servizi esterni alla PA. Il paradigma prevede che siano “altri” a gestire servizi, perciò essere “unidirezonali” e “grezzi” è un vantaggio,rientra nel paradigma degli O.D. e non li chiamerei “limiti”. Certo, possiamo non credere nella capacità di innescare un volano virtuoso,ma è così. Gli O.S. rientrano invece nell’ambito dei servizi “consistenti” (…) offerti dalla PA”.Il primo pensiero però,anche per affinità tecnica,non è tanto ai mashup quanto ai services della Coop App sui quali le PA hanno investito molto e prodotto poco. Perchè? Perché la complessità di un “service” in C.A. risponde a standard molto complessi,richiede porte di dominio certificate e resta(nonostante il nuovo CAD)ancora una cosa per pochi. Però cogliendo lo spirito di Fuggetta la strada è “anche” questa: servizi di backend, semplificati, standardizzati, aperti, dinamici da invocare e inglobare nei propri front end. Ma non in competizione con gli O.D. Ciò che davvero serve è standardizzare le architet applicative per orchestrare con coerenza e in economia la relazione digitale con l’utente

  9. Pietro Blu Giandonato

    Giusto alcune puntualizzazioni per amor di chiarezza.

    1. I formati aperti dei quali stiamo parlando sono degli standard de facto, aperti, e in quanto tali interoperabili tra loro.

    2. Riguardo la semantica, un dato è in genere una misura di qualcosa, ma può anche assumerne altri se viene elaborato (da mente umana prima ancora che da una macchina). Ad esempio la concentrazione di PM10 rilevata da una stazione di monitoraggio della qualità dell’aria, è un numero in un file CSV, ma può diventare un superamento di soglia se viene “interpretato” da qualcuno. Lei afferma “…come il dato è stato raccolto, quale precisione ha, se è georeferenziato o meno (ho fatto solo alcuni banali esempi) il dato grezzo mi dice poco o niente”. Stiamo parlando di “metadati”, che io do per scontato debbano sempre accompagnare i dati realmente aperti. Nessuna confusione dunque.

    3. Lei nell’articolo afferma “normalmente gli open data sono fotografie in un certo momento della base informativa di una amministrazione (snapshot)” io ho solo fatto notare che un dato (non solo open, attenzione) può essere sia statico che dinamico, nessun aut aut quindi.

    4. Non mi pare di aver affermato l’inutilità di qualcosa.

  10. Carlo Vaccari

    Io non denigrerei i “dati aperti”: resta a mio parere tutto il valore di quelli che Tim Berners-Lee chiedeva (gridando) “Raw Data NOW”. Ma anche se quelli che Fuggetta chiama “limiti” degli OD mi sembrano piuttosto limiti degli OD fatti male, sono d’accordo sul fatto che “servizi aperti” potrebbero consentire un passo avanti, garantendo dati aggiornati e utilizzabili dall’interno di altri servizi. Purtroppo però in Italia abbiamo visto che molto pochi “servizi” o “applicazioni” sono stati sviluppati sui dataset – ormai abbastanza numerosi- resi disponibili in formato aperto. Sarebbe il caso che dalle aziende (e dalle università!) si diffondessero idee e pratiche di sviluppo di questi “servizi aperti”!

  11. Marco Combetto

    Interessante anche se discutibile. Il tassello mancate, proprio per la mancanza di una semantica standard, non mi sembra che sia la creazione di open services, ma dovrebbe essere la messa a dispozione di alcuni servizi standard infrastrutturali, in particolare almeno due: un ontologia interrogabile standard ed un servizio di linking dei dati standard. Tutte due cose molto complesse da standardizzare (non tecnicamente). Ecco se l’agenda digitale riuscisse a dare questi due servizi, finalmente si potrebbe costiture un unica rete di dati aperti e interconnessi, sulla quale costruire servizi. Nell’attesa, get row data (cc-zero) now! 😉 e chi ha idee costrusca servizi open/closed sopra (e.g. Apps4Italy, OpenParlamento, OpenBilancio, etc.) i dati messi a disposizione alla belleemeglio 😉

  12. Andrea Raimondi

    Molto interessante l’idea. Se posso, i problemi che lei mette in luce non sono propri degli Opendata in quanto tali. Certo se ci riferiamo ai dati grezzi vale quello che lei dice. Ma il livello dei dati grezzi è il minimo passo in avanti che si possa fare. Le debolezza che mette in luce, tutte corrette, scompaiono quando i formati vengono implementati bene. Già gli stessi XML, se realizzati ad arte, forniscono ricche informazioni sui dataset. I LOD consentono un aggiornamento costante dei dati e un’integrazione strutturali tra differenti risorse. Le ontologie consentono di recuperare facilmente i vocabolari di metadati per le PA. Da qualche giorno è infatti possibile contribuire allo sviluppo dell’ADMS europe, una repository il cui obbiettivo è quello di uniformare lo standard metadati tra i paesi membri, Italia compresa. Nonostante ciò credo che le due idee possano correre parallele. Ma vorrei mettere in luce un punto critico. Credo che si possa correre il rischio di sparpagliare le risorse di sviluppo in un momento in cui è Necessario che siano canalizzate.

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