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L’EMERGENZA PROFUGHI UN ANNO DOPO *

Poco più di un anno fa, nel febbraio del 2011, iniziavano gli sbarchi a Lampedusa dei profughi provenienti prima dalla Tunisia, poi dalla Libia.

DUE MIGRAZIONI; DUE INTERVENTI

Si è trattato naturalmente di due fenomeni ben distinti: nel primo caso, una migrazione economica indotta dalla crisi dovuta al tracollo del turismo nella Tunisia meridionale, prima conseguenza della cosiddetta primavera araba; nel secondo caso, il riflesso della guerra civile in Libia con lavoratori africani usati dal regime di Gheddafi come arma di pressione verso l’Europa.
Le autorità italiane hanno infatti gestito i due fenomeni con modalità diverse: nel primo caso si è fatto ricorso all’articolo 20 del Testo unico sull’immigrazione, ovvero la possibilità di adottare “misure di protezione temporanea per rilevanti esigenze umanitarie, in occasione di conflitti, disastri naturali o altri eventi di particolare gravità in Paesi non appartenenti all’Unione Europea”.
Nel secondo caso, fallita la richiesta all’Europa di adottare la protezione temporanea, in caso di massiccio afflusso di sfollati) è stato “consigliato” ai profughi (in gran parte lavoratori sub- sahariani) di fare ricorso alla domanda di asilo.
Gli accordi del 30 marzo e del 6 aprile 2011 con Regioni e Anci avevano definito la regia della Protezione civile, la quale per tutta la primavera e l’estate successiva aveva provveduto a smistare quasi trentamila persone nelle varie strutture (in taluni casi anche alberghi) sparsi per il territorio nazionale.
Come sempre accade, dopo un primo clamore spentosi con le elezioni amministrative di maggio, i media si sono dimenticati della vicenda e dei profughi si trova ormai traccia solo sui siti internet specializzati in immigrazione, o per qualche articolo di colore sulla stampa locale: qualche amministratore ad esempio si è ricordato di loro a proposito dell’emergenza neve.
Non è facile tracciare un bilancio della gestione di questa esperienza: sul piano strettamente logistico il lavoro della Protezione civile ha funzionato. Era necessario distribuire i profughi su tutto il territorio nazionale, per decongestionare Lampedusa, ma anche altre strutture, come Mineo in Sicilia. Tenendo conto che molti amministratori (non solo leghisti) avrebbero evitato volentieri questa incombenza, l’opera di ripartizione tra le Regioni e gli enti locali ha risposto a criteri oggettivi (quelli demografici) ed è stata compiuta con imparzialità, sono coinvolti circa 900 comuni.
Meno positiva la fase della cosiddetta accoglienza. Non sempre le cabine di regia locali (dove istituite) sono riuscite a districarsi tra le competenze di Protezione civile, Regioni ed enti locali, prefetture e questure.
In alcune realtà, c’è stato uno sforzo reale di integrazione con attivazione di mediatori culturali, corsi di lingua italiana, esempi di lavoro volontario di pubblica utilità, incontri con la cittadinanza. Ma nella maggior parte dei casi tutto questo è mancato e ci si è limitati a una pura accoglienza alberghiera (anche quando si è trattato di strutture pubbliche o del privato sociale), che in taluni casi ha prodotto anche episodi di ordine pubblico.
Infine l’aspetto economico, tutt’altro che secondario. Fin dall’inizio fu fissata una diaria giornaliera di 40/46 euro, superiore a quella del sistema ordinario di accoglienza dei richiedenti asilo (sistema Sprar) di 35/40 euro . Il sistema di convenzioni con gli enti gestori e soprattutto il noleggio delle navi hanno inciso notevolmente.
La Protezione civile ha quindi stimato i costi per il 2011 in circa 700 milioni di euro, che però sono destinati ad aumentare notevolmente nel 2012 considerando dodici mesi complessivi di ospitalità (nel 2011 sono stati mediamente sette) e saranno finanziati con l’aumento delle accise sui carburanti.
Si pone il problema di cosa fare ora.

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IN CERCA DI UNA SOLUZIONE COLLETTIVA

Per un curioso contrappasso, un anno dopo i tre governi di Italia, Libia e Tunisia sono tutti cambiati e sono i loro successori a dover gestire la scomoda eredità, in attesa di sapere se con la bella stagione riprenderanno, in un contesto completamente cambiato, nuovi “viaggi della speranza” nel Mediterraneo.
Naturalmente il problema si pone soprattutto per il governo Monti, visto che nelle varie strutture predisposte dalla Protezione civile in accordo con le Regioni e i comuni, ci sono ancora quasi 22mila persone: quasi tutte di provenienza libica, poiché i tunisini se ne sono ormai andati alla spicciolata e nessuno potrebbe nemmeno dire quanti di loro sono ancora in Italia.
A distanza di quasi un anno cominciano ora a filtrare i primi dati dalle prefetture: i dinieghi (cioè coloro che si vedono negato il diritto di asilo) sono oltre il 70 per cento del totale ed è un dato che non deve destare sorpresa, anzi era ampiamente prevedibile fin dall’inizio, da quando si era appreso che le nazionalità dei profughi erano quelle dei vari paesi sub sahariani (ma anche Pakistan e Bangladesh) che avevano fornito alla Libia negli ultimi dieci anni, manodopera nei settori più disparati. dall’estrazione petrolifera all’edilizia.
Si tratta quindi di lavoratori nigeriani, maliani, senegalesi e di altre nazionalità, in fuga da una guerra non loro o costretti dalla polizia di Gheddafi a salire su imbarcazioni di fortuna (molti sono periti in mare). Solo una piccola minoranza proviene da paesi come Eritrea e Somalia per i quali la domanda di asilo ha forti possibilità di essere accolta, o da paesi come Etiopia e Sudan per i quali ci sono forme di protezione umanitaria e sussidiaria.
In ogni caso, non è possibile generalizzare, poiché la domanda di asilo è un diritto individuale e individuali saranno le risposte delle commissioni territoriali.
In questo scenario l’associazione “Melting Pot”, attraverso il proprio sito internet, ha lanciato in dicembre la proposta di una raccolta di firme, per indurre il governo italiano a riconoscere anche alle persone provenienti dalla Libia, la protezione temporanea prevista dall’articolo 20. In poche settimane sono state raccolte centinaia di firme tra le quali spiccano quelle del presidente della Regione Puglia e del sindaco di Napoli, ma anche di numerosi esponenti del Partito democratico.
È una proposta che si può considerare di buon senso, ma con qualche doverosa precisazione.
Non si tratta tanto di “obbligare lo Stato italiano ad accoglienza e protezione a prescindere dal parere delle Commissioni territoriali asilo”, quanto di preparare le condizioni per una soluzione collettiva e non individuale, per favorire un’intesa Italia-Libia con diversi esiti possibili, senza escludere rimpatri assistiti.
È possibile che di questi ventimila lavoratori la Libia abbia di nuovo bisogno in futuro, ad esempio nelle opere di ricostruzione. Sappiamo che la situazione nel paese è tutt’altro che stabilizzata e le nuove autorità hanno bisogno di tempo.
Non sarebbe tuttavia giustificato riconoscere loro un trattamento di miglior favore, rispetto a casi analoghi (magari solo per il clamore mediatico legato alla loro vicenda).
Quanti lavoratori africani, in Italia da molto tempo e con famiglia a carico, hanno perso il lavoro nel 2011, e ora rischiano di perdere il permesso di soggiorno ?
Ci sono due pericoli da evitare: quello di un’ondata di ricorsi ai dinieghi, che si potrebbero avvalere del “gratuito patrocinio” per contrastare i provvedimenti di espulsione. Sarebbe una prassi discutibile. Ma anche il pericolo di una caduta nell’irregolarità, visto che almeno tremila persone che si sono viste respingere la domanda di asilo, non hanno presentato alcun ricorso.
Ecco quindi che il nuovo governo italiano (privo dopo tanti anni di una forte componente xenofoba) potrebbe cercare di affrontare la situazione che ha ereditato, con pragmatismo e rispetto della normativa, con permessi di tipo umanitario, ad esempio fino al dicembre 2012.
Una scelta di attesa passiva prolungherebbe invece l’emergenza anche per tutto il 2013.
Meglio muoversi nel pieno rispetto dei diritti umani, ma anche evitando furbizie e ipocrisie.

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* Regione Emilia-Romagna. Rappresentante delle Regioni nel Comitato tecnico nazionale sull’immigrazione. Le opinioni espresse nell’articolo sono personali e non coinvolgono l’ente di appartenenza.

 

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ARTICOLO 18 NELLA PA: UNA DOMANDA A DUE MINISTRI

  1. nello

    Mi sento di dover fare una considerazione , cosa è peggio dire no non puoi entrare, oh fare credere a tutti i disgraziati del Mondo di poter venire a trovare quello che non possiamo dare loro, stiamo dando l’illusione a migliaia e migliaia di Migranti che intraprendono lunghi viaggi pieni di pericoli ed addirittura rischiando la vita, per trovare un Paese che falsamente fa’ finta di accettarli.Il nostro falso Buonismo è peggio della fame di casa loro.

  2. FREDO OLIVERO TORINO

    700 000 000 spesi per l’emergenza 2011:più di quello che spendiamo per l’integrazione dei 5 milioni di immigrati. Perchè non tornare alle soluzioni non emergenziali(meno costose,più serie ed efficaci)? la invito a leggere il sito VIEDIFUGA di cui sono titolare con il coordinamento NONSOLOASILO del Piemonte Spero solo che questo ministro si renda conto quanto è becera e costosa questa comoda scelta

  3. Francesco Santodirocco

    L’articolo lodevole di A. Stuppini, propone misure di “emergenza”, ma sarebbe giunta l’ora di prendere misure di più ampio respiro. Analizzando in breve la situazione, abbiamo due gravi fenomeni, che potrebbero avere una possibile soluzione reciproca. Dall’Africa emigrano milioni di disperati e in Italia abbiamo milioni di disoccupati. La ragione del primo è davvero per “povertà”? Se si prende l’Africa come Continente, è davvero povero? I dati ci dicono che possiede ricchezze più delle Americhe : ci sono Paesi scandalosamente ricchi ( p.es. il Congo,la Libia , la Nigeria, il Niger,il Sudafrica,il Monzambico, l’Angola ecc..)perchè sono “poveri”?, La ragione sta nel fatto che non hanno la capacità di sfruttare le loro risorse, semplicemente perchè mancano di know-out (tecnologie e uomini preparati).In Italia, ma anche in Europa, abbiamo disoccupazione perchè mancano le risorse (e mal distribuite) e ormai dobbiamo parlare di sovrappopolamento. Se così è, l’unica soluzione sarebbe una contro-emigrazione, esattamente come avvenne per le Americhe e per l’Australia nel secolo scorso…o no ? Ad ogni azione corrisponde una uguale e contraria!

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