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Trasporti e ambiente: quando la tassa è “giusta”

Una ricerca del Fondo monetario si propone di definire le politiche fiscali più adeguate per le fonti di energia da fossili, concentrandosi sui trasporti. L’Italia con le sue accise sulla benzina è senz’altro tra le nazioni più virtuose. Il futuro nelle scelte di motorizzazione dei paesi emergenti.
I COSTI SOCIALI DEI TRASPORTI
“Getting Energy Prices Right” (Imf, Washington DC, 2014), la ricerca recentemente resa pubblica dal Fondo monetario (appare di straordinaria vastità. Concerne infatti 156 paesi del mondo, e si ripropone di definire e valutare politiche fiscali per le quattro fonti principali di energia da fonti fossili (carbone, gas naturale, benzina, diesel), tali da “internalizzare i costi esterni” che generano. E ciò tenendo conto di quanto le politiche fiscali nazionali già non “internalizzino” tali costi. Inoltre si spinge successivamente fino a valutare l’ordine di grandezza dei benefici socioeconomici e fiscali che la fissazione di una imposizione corretta genererebbe. Il volume, di quasi 200 pagine, è stato onorato da una prefazione di Christine Lagarde. L’analisi si concentra soprattutto sul settore dei trasporti, per due motivi: la complessità del settore e la presenza di numerose altre esternalità, che in una ottica di internalizzazione non possono certo essere ignorate. Le esternalità considerate per il settore dei trasporti appaiono nel complesso esaustive: infatti, accanto agli effetti climalteranti ed ai danni alle persone proprie di tutte le emissioni gassose in atmosfera, vengono valutati statisticamente i costi sociali degli incidenti ed i fenomeni di congestione. Sulla valutazione di questi ultimi tuttavia non si possono non esprimere tre dubbi metodologici rilevanti. Il primo concerne la definizione di assenza di congestione (flusso veicolare libero) assunto come riferimento: in realtà la teoria dimostra che un flusso libero non è efficiente, perché evidenzia la sottoutilizzazione dell’infrastruttura. Il flusso che massimizza il surplus sociale è intermedio tra il flusso libero e quello congestionato. Nel caso della città di Parigi il rapporto fra costo “economico” della congestione e quello del “tempo perso” è stato stimato da Prud’Homme pari a 1/15.
Il secondo dubbio è l’assimilazione della congestione ad altre esternalità: anche qui la teoria, sviluppata dal premio Nobel Buchanan ma certo non universalmente condivisa, include la congestione stradale tra le “esternalità di club”, in cui i soggetti danneggiati coincidono con i soggetti che generano il danno, al contrario delle esternalità da emissioni. Il terzo dubbio è la nota inefficienza dell’uso delle accise sui carburanti nell’internalizzare la congestione: considerata l’estrema variabilità nel tempo e nello spazio del fenomeno è di gran lunga preferibile ricorrere a strumenti del tipo “congestion charge”. Analoga considerazione può essere svolta con riferimento al tema della incidentalità.
IL PESO DELL’EUROPA E QUELLO DEI PAESI EMERGENTI
Ma qui non c’è spazio per una trattazione più esaustiva di questi punti; c’è solo da osservare che essi collocano tendenzialmente i risultati dello studio del Fmi “on the safe side”, nel senso di non sottostimare le esternalità del settore dei trasporti, piuttosto il contrario. Appare prudenziale anche il costo sociale per tonnellata di CO2 emessa, assunto pari a 35 dollari. Un recente paper che prende in rassegna i dati di 311 studi pubblicati finora indica come valore medio del costo sociale, assumendo un tasso di preferenza intertemporale molto basso (1 per cento), quello di 23 $/tCO2. Tale valore dovrebbe aumentare nel tempo (contemporaneamente si ridurranno i consumi unitari dei veicoli e quindi le emissioni: tra il 2007 ed il 2013, le emissioni medie dei nuovi veicoli in Europa sono diminuiti di oltre il 20 per cento). Dall’analisi condotta emerge come il Fmi, al contrario della Commissione europea, consideri le tasse specifiche sulle fonti energetiche (cioè non l’Iva ecc.), “internalizzanti i costi esterni”, quali che siano gli scopi formalmente dichiarati (le parole non possono mutare il significato economico di tali tasse). La base dati di riferimento dello studio, data la fonte, è ovviamente assai ampia: tutte le maggiori organizzazioni internazionali hanno contribuito, la Banca mondiale e l’Ocse in primo luogo, ma anche la Commissione europea e organismi sanitari di varia natura, e poi moltissimi studi e ricerche di singoli paesi. Da un così ricco campione poi si è potuto estrarre una casistica “per analogia”, che è stata estesa con buoni livelli di confidenza a paesi più poveri di dati diretti.
Confrontando i costi sociali delle emissioni con le politiche fiscali dei diversi paesi, è stato prodotto un ranking di paesi più o meno “virtuosi”. Come era logico aspettarsi, il paese meno virtuoso (considerando sia la quantità di emissioni che il livello di internalizzazione) è risultato gli Stati Uniti. Ma è emerso altresì che molti importanti paesi in via di sviluppo non solo non tassano l’uso dei combustibili fossili, ma li sussidiano esplicitamente, ponendoli in commercio a prezzi nettamente inferiori di quelli che spunterebbero sui mercati internazionali (“colpevoli” sono in particolare risultati l’Egitto, l’Indonesia ed il Venezuela). Per quanto concerne in particolare i trasporti, l’Europa, dato l’elevato livello di pressione fiscale sui carburanti, risulta essere particolarmente virtuosa. In generale, tale pressione risulta molto superiore ai costi esterni complessivi, includendovi quindi incidenti e congestione stradale.
L’Italia si colloca ovviamente tra i paesi “virtuosi”, cioè con un prelievo per nei trasporti stradali mediamente superiore alle esternalità come prima definite (assai più per la benzina e meno per il gasolio). In uno studio più analitico per il caso italiano era in già effetti emerso che per alcuni settori del trasporto stradale verosimilmente il prelievo fiscale superava le esternalità generate. I numeri relativi sono eloquenti: tassa per litro necessaria per internalizzare tutti i costi esterni, benzina € 0,42, diesel € 0,59. Tassa attuale: benzina € 0,85, diesel € 0,68. Sono dati calcolati per il 2010, per ovvie ragioni di disponibilità omogenea di dati a livello mondiale, ma verosimilmente la pressione fiscale delle accise in questi ultimi anni si è accentuata.
Per concludere: a confronto con altri settori inquinanti i trasporti sono quelli che in Italia internalizzano di più i costi esterni mentre ve ne sono altri come l’agricoltura che sono fortemente sussidiati.
Certo, sarebbe imprudente e semplicistico concludere che ridurre le accise sui carburanti sia per i paesi “virtuosi” una politica da perseguire, tuttavia la questione meriterebbe di essere sollevata almeno a livello di ricerca sia perché al di sopra di certe soglie di prelievo le entrate complessive non aumentano o addirittura calano, sia per i caratteri di regressività del prelievo (Tabella 1): il “diritto alla mobilità” su quattro ruote non sembra finora avere attirato la stessa attenzione di quello, minoritario, soddisfatto dai mezzi collettivi. Ma anche il notevolissimo “surplus fiscale” che questo settore genera potrebbe contribuire a rendere l’approccio ai problemi della mobilità meno ideologico.

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 Tabella 1 – Composizione percentuale della spesa totale per classi – Anno 2011

Schermata 2014-11-25 alle 11.39.25Fonte: Rapporto Annuale 2013, Istat

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11 commenti

  1. Leonardo

    Buongiorno Prof.Ponti,
    il suo articolo offre uno spunto di riflessione sull’utilità del processo di internalizzazione delle esternalità.
    Ovvero, internalizzare un costo sociale può dare i suoi frutti solo se:
    – l’aumento del costo marginale del prodotto/servizio (inquinante, ad es.) non genera un contestuale aumento del prezzo di vendita al pubblico, cosa che in mercati non concorrenziali succede tranquillamente;
    – il beneficio finanziario (derivante dal maggior introito fiscale che l’introduzione dell’accisa garantirebbe) viene utilizzato per calmierare/scongiurare il verificarsi delle esternalità negative e/o per incentivare la ricerca ad individuare metodi alternativi di produzione/utilizzo del bene/servizio che abbiano impatto nullo o ridotto delle esternalità sulla collettività.
    Senza queste due condizioni, a mio parere, l’internalizzazione dei costi sociali è sterile per la collettività e la difesa del territorio.
    Cosa ne pensa?
    Cordiali Saluti

    • Secondo Moore & Diaz (http://www.nature.com/nclimate/journal/vaop/ncurrent/full/nclimate2481.html) anche qui bisognerebbe assumere un costo dinamico dell’impatto sull’economia e non statico negli anni perché le criticità innescata dal surriscaldamento evolvono in maniera progressiva ma non lineare.
      Gli stessi Moore & Diaz arrivano ad un costo più realistico di 220$ per tonnellata. L’EPA è più prudenziale ma suggerisce sempre un costo tendenziale superiore ai 50$
      (http://www.whitehouse.gov/sites/default/files/omb/assets/inforeg/technical-update-social-cost-of-carbon-for-regulator-impact-analysis.pdf).
      La stima del costo economico della CO2 è in forte evoluzione perché l’obiettivo attuale dei vari gdl è quello di capire cosa possa avvenire ora che la soglia dei 400 ppm è stata superata. Quello che preoccupa e rendere sempre obsolete queste stime è la velocità con cui sta aumentando la pendenza annua della curva (http://www.esrl.noaa.gov/gmd/ccgg/trends/). Problema legato sia alla liberazione di clatrati dai depositi siberiani sia all’incedere dell’estrazione di combustibili pesanti con fatturazione idraulica, tecnica che comporta la dispersione di forti quantità di metano. Assumendo un pur prudenziale trend di +2.50 ppm/anno per il periodo 2015-2020 e di 3.75 per il periodo 2020-2030, la soglia superiore di 450 ppm sarà toccata poco prima del 2030. A questo punto il sistema sarà molto instabile per non interagire pesantemente con i processi socioeconomici.

      • Francesco Ramella

        Lo studio di Moore & Diaz rappresenta un outlier rispetto alla maggior parte degli studi ad oggi pubblicati: il valore riportato nel nostro articolo – 23 $/tCO2 – è quello medio con riferimento a 311 studi ed assumendo un tasso di preferenza intertemporale molto basso (1%). Gli stessi autori nella presentazione dello studio evidenziano peraltro un caveat fondamentale:
        “while [our model] explores the effects of temperature on economic growth, [it] does not factor in the potential for mitigation efforts to also impact growth… For this reason, the rapid, near-term mitigation level found in our study may not necessarily be economically optimal”.

        • Il rilascio di clatrati (con i sink-hole siberiani) piuttosto che la crescita esponenziale del rilascio di metano per fratturazione idraulica sono emersi all’attenzione della comunità scientifica solo negli ultimi 3 anni (nonostante siano fenomeni ben noti). Mi premeva sottolineare che sta emergendo una nuova consapevolezza scientifica circa la monetizzazione del rilascio di gas climalteranti misurati in equivalenti di CO2: al momento, come sottolinea l’IPCC, possiamo solo trarne che siamo punto a capo per una nuova serie di studi perché quelli svolti sinora, di certo, sottostimano. Le consapevolezze che di mese in mese stanno emergendo dimostrano che questa sottostima è di almeno un ordine di grandezza: come in tutti i fenomeni complessi però l’attraversamento di una soglia non ci dice nulla circa le leggi che governano l’equilibrio (seppure momentaneo) del sistema post-soglia. Tanto meno possiamo mediare studi ormai obsoleti per trarre delle conclusioni circa standard economici proiettati quantomeno al prossimo decennio.

          • Francesco Ramella

            Nel più recente rapporto IPCC si può leggere: “It is very unlikely that methane from clathrates will undergo catastrophic release during the 21st century (high confidence)”. Non è affatto certo che le stime del costo esterno della CO2 prodotte finora (le più recenti meno “allarmistiche” di quelle più datate) saranno riviste al rialzo. L’opposto potrebbe accadere qualora dovesse essere ridefinita al ribasso la sensitività del clima come ipotizzano alcuni recenti lavori. In considerazione delle incertezze attuali sembra ragionevole ipotizzare l’adozione di una carbon tax di entità iniziale limitata e correlata all’evoluzione reale della temperatura (http://www.fraserinstitute.org/uploadedFiles/fraser-ca/Content/research-news/research/publications/climate-policy-implications-of-the-hiatus-in-global-warming.pdf)

  2. Davide

    Nel paper di Tol citato nell’articolo (tabella 2) il valore di $23/ton CO2 sembra riferirsi alla moda e non alla media del costo sociale della CO2, che è $68/ton CO2. Questi valori si riferiscono a un sottogruppo di studi (69 su 311) che tengono conto dell’incertezza delle loro stime, ma non usano necessariamente l’1% come tasso di sconto.

    • Francesco Ramella

      Il valore di $23 /tCO2 è correttamente riferito alla media di tutti gli studi che assumono un tasso di preferenza intertemporale pari all’1%. Nella tabella 2 del paper di R. Tol il valore è espresso in $/tC (84) e deve essere diviso per 3,667 per esprimerlo in $/tCO2. Si ottiene così il valore indicato nell’articolo.

    • La stima economica dell’impatto sanitario dei trasporti è un argomento estremamente complesso perché coinvolge o esperti ai massimi livelli di economia, o di tecnica dei trasporti, o statistici o epidemiologi. Quasi mai si da risalto alle evidenze del lavoro medico-scientifico: l’articolo citato in Cityrailways.net tenta, pur nei limiti del mantenimento di un tono divulgativo, di iniziare una discussione su questo tema, portando di volta in volta (altri ne seguiranno) alcune evidenze tratte da gruppi di lavoro come quello di Massimo Staffogia in Medparticles.
      Fatta questa premessa, probabilmente l’esposione del testo può trarre in inganno: i costi unitari “reali” che lei cita sono quelli riscontrabili in zone con densità urbane (o comunque maggiori di 1.000 abitanti al kmq).
      Nell’estensione a livello nazionale si parla di 26 € per litro di benzina, 18 € per litro di gasolio in automobile e 3 € al litro di gasolio in autobus. Mancherebbe una analoga valutazione sul traffico pesante, ma seguo il suo rapido calcolo.
      12 miliardi di litri di benzina per 26 € al litro fanno in tutto, per anno, 313 miliardi di €
      28 miliardi di litri di gasolio li dividerei al 70% per automobili al costo di 18 € al litro; al 30% per autobus per 3 € al litro. Fanno in tutto 384 miliardi di €
      In tutto abbiamo 698 miliardi di € ovvero il 37% del PIL di un anno (1.867 miliardi al 2012).

  3. Gentt. prof. Ponti e dott. Ramella,
    la metodologia adottata da Parry, Heine, Lis e Li per la pubblicazione citata, assume, per la valutazione dei costi sanitari dell’inquinamento acustico e dell’aria, un punto di vista statico che si traduce in una quota sul numero totale annuo di patologie riscontrate dall’annuario epidemiologico.
    In questo modo si prescinde dalle condizioni locali e quindi si incorpora un fattore riduttivo nel calcolo finale. Questo fattore è di un ordine di grandezza inferiore quando si valuta il costo delle emissioni da centrale termica. Ma diventa un moltiplicatore importante quando si tratta le emissioni da traffico, per la loro polverizzazione come sorgenti emissive sul territorio, la prossimità ai ricettore e l’importanza delle condizioni al contorno rispetto ai fattori che ne favoriscono la dispersione.
    La densità territoriale è quindi un fattore dal quale non si può prescindere, pena una sottostima del costo effettivo per modalità di trazione.
    Così se il costo sanitario per singolo kWh da carbone è prossimo a quello stimato nello studio, il costo per singolo kWh per un’automobile diesel può raggiungere avere un rapporto di 35:1 rispetto al costo di acquisto del carburante.
    E questo senza variare il costo dei gas climalteranti.
    In questo articolo, seppure con un tono divulgativo, si approfondisce la questione:
    http://www.cityrailways.net/studi-e-tecnica/2015/1/23/misurare-il-vero-costo-dei-trasporti.html

    • Francesco Ramella

      Nel 2014 l’Unione Europea ha aggiornato (http://ec.europa.eu/transport/themes/sustainable/studies/doc/2014-handbook-external-costs-transport.pdf) le precedenti analisi dei costi esterni disaggregati per ambito territoriale. In ambito urbano il costo esterno correlato all’inquinamento atmosferico è stimato per un’auto diesel a standard Euro IV pari a 1,8 €c/vkm (-83% rispetto ad un’auto EURO 0) ed a 0,4 €c/vkm per un’auto alimentata a benzina. Il costo esterno correlato al rumore varia tra gli 0,8 €c/vkm in condizioni di traffico congestionato e i 2,2 €c/vkm per traffico fluido. Complessivamente i costi esterni “locali” in ambito urbano si attestano quindi mediamente intorno ai 2,5€c/vkm a fronte di un prelievo fiscale pari a circa 7€c/vkm. Quindi, anche nelle condizioni più sfavorevoli, il prelievo fiscale è largamente superiore ai costi esterni ambientali “locali”.
      I “costi sanitari” di 70 €/l di benzina e di 50 €/l di gasolio indicati nell’articolo segnalato non hanno evidentemente alcun riscontro nella letteratura scientifica e si tradurrebbero a livello nazionale – consumi di benzina pari a 12 miliardi di litri e di gasolio pari a 28 miliardi di litri – in un costo sanitario complessivo pari a 2.300 miliardi di € ossia il 150% del PIL. Dato che non ha bisogno di ulteriori commenti.

  4. Riccardo Martinelli

    Il commento di Andrea Spinosa mi sembra molto pertinente. Se il tubo di scappamento di una macchina passa a 2 metri dalla bocca di mio figlio, mi immagino che il danno per la sua salute, per molecola emessa, sia largamente superiore a quello generato da una centrale elettrica persa nella campagna. La mancanza di una risposta al commento va interpretata come un’ammissione di superficialità (e pertanto la stima assunta nell’articolo è fondamentalmente sbagliata)?

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