Il decreto Poletti ha davvero favorito l’incremento dei contratti a tempo indeterminato e di apprendistato, come sostiene il ministero? La notizia non sembra confermata dai dati sulle comunicazioni obbligatorie. Equivoco frutto dell’assenza di una cultura della valutazione. E di microdati
GLI EFFETTI DEL DECRETO POLETTI
Venerdì 28 novembre, il ministero del Lavoro ha pubblicato una nota dove scrive: “Un andamento positivo dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato, pari ad oltre 400mila nuovi contratti, con un aumento tendenziale del 7,1 per cento rispetto ad un anno prima, concentrato nei settori dell’industria e dell’agricoltura, mentre diminuiscono gli avviamenti nel settore dei servizi, tranne che nell’istruzione, che presenta più di 17mila nuovi contratti a tempo indeterminato. (…) Questi dati, in continuità con quelli relativi al 2° trimestre, confermano che il cosiddetto decreto Poletti, convertito nella legge 78/2014, ha prodotto l’esito che era auspicabile, cioè un incremento dei contratti a tempo indeterminato e dei contratti di apprendistato”.
Un’ottima notizia, apparentemente in contraddizione con l’ennesimo bollettino Istat che registrava un aumento della disoccupazione, diffuso negli stessi minuti. Purtroppo, l’entusiasmo del ministero non è confermato dai dati sulle comunicazioni obbligatorie pubblicato mercoledì 3 dicembre dallo stesso ministero. Analizzando l’andamento trimestrale (figura 1) si vede come dall’entrata in vigore del decreto Poletti (decreto del 20 marzo, convertito in legge il 16 maggio) il numero di contratti a tempo indeterminato sia in realtà diminuito rispetto ai trimestri precedenti. La figura 1 evidenzia un minore calo nel secondo e terzo trimestre rispetto agli anni precedenti, ma si vede anche come l’inversione di tendenza fosse già cominciata nel primo trimestre. Purtroppo, dal primo trimestre 2014, il ministero del Lavoro non pubblica più i dati destagionalizzati, ma anche utilizzando in maniera rozza gli andamenti stagionali degli anni precedenti per cui i numeri sono disponibili, non è possibile notare alcun andamento particolarmente positivo nel secondo e terzo trimestre.
Se poi si considera il saldo netto tra attivati e cessati, dal secondo semestre 2011 i contratti a tempo indeterminato chiusi sono sempre stati superiori a quelli aperti. Nel terzo trimestre 2014 per i 400mila contratti attivati ne sono terminati 483mila.
La tendenza, come si vede nella figura 2, è alla diminuzione dei contratti a tempo indeterminato rispetto al totale dei nuovi contratti: nel terzo trimestre 2014 siamo scesi al 16 per cento rispetto al 70 per cento dei contratti a tempo determinato.
ASSUNZIONI NEL PUBBLICO IMPIEGO
Da dove arriva quindi l’aumento del 7 per cento su base annua dei contratti a tempo indeterminato, così come riportato nella nota del ministero? Rispetto al terzo trimestre 2013, si è registrato un aumento di oltre 26mila nuovi contratti a tempo determinato, ma la maggior parte si è concentrata nel settore dell’istruzione: +44 per cento su base annua, per una variazione assoluta di oltre 17mila contratti rispetto al terzo trimestre 2013. Un aumento, dato il settore, difficilmente ascrivibile alla legge 78/2014. Il sospetto di Michele Pellizzari “che il comunicato fosse stato emesso per bilanciare quello dell’Istat (e magari astutamente togliergli spazio mediatico) confondendo le acque” pare più che fondato. Un’analisi attenta mostra come ci sia ben poco da gioire: i 400mila contratti a tempo indeterminato sono meno di quelli cessati nello stesso periodo, su base annuale l’aumento è concentrato nel settore pubblico e la diminuzione rispetto al totale dei nuovi contratti continua inesorabile.
Concludendo, dai dati pubblicati dal ministero non è possibile vedere alcun effetto del decreto Poletti (che per altro si poneva come obiettivo di rendere più facile l’utilizzo dei contratti a tempo determinato), come invece afferma il comunicato. Più in generale, è bene ricordare che non è possibile valutare il successo o meno di una politica pubblica guardando solo alla variazione temporale, ma è necessaria una rigorosa valutazione econometrica. Per questo servono (micro)dati facilmente accessibili e una cultura della valutazione che ancora dobbiamo sviluppare o per lo meno rafforzare. Come diceva Laurence Peter, inventore del principio di incompetenza, “i fatti sono ostinati, ma le statistiche sono più flessibili”.
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Domenico
Perché si deve dave credito a quello che dice un ministro? Tutti sanno e/o possono sapere come si determina il tasso di disoccupazione, volendo si può andare anche su internet per scoprirlo, non è necessario consultare un testo di macroeconomia.
Se il tasso di disoccupazione è dato dal rapporto tra occupati e popolazione attiva, mi domando e dico perché, ad un telegiornale, devo sentir dire da questo “ministro” che la disoccupazione è aumentata solo perché più persone cercano lavoro …. Allora mi domando nuovamente: perché si deve dave credito a quello che dice un ministro?
Michele
E’ imbarazzante l’ignoranza che c’è in Italia. Ed è ancora più imbarazzante che chiunque, addirittura un ministro, possa manipolare in maniera così evidente e subdola dei dati oggettivi.
Giulio Fedele
Assenza di una cultura della valutazione? Non sarebbe più appropriato paralare di dilettantismo? O, meglio ancora, di assenza di una cultura della correttezza?
bob
la disinformazione sistematica e direttamente proporzionale al livello di cultura del Paese che la pratica. Il Paese (unico) con 4 quotidiani sportivi, con un numero esageratamente impressionante di tv private, con quotidiani “politici” che non vendono una copia etc. ma con il più basso numero di coloro che leggono un libro, con il più basso utilizzo di Internet per lavoro, con territori in cui si viaggia con punte di analfabetismo pari al 10-15%. Tutto questo contrasta in maniera evidente con interi settori ( edile, agricoltura, ristorazione) dove italiani non sono più presenti. L’ equazione ci dice che burocrazia e politica la fanno da padroni , quindi un mondo fittizio che solo con la disinformazione può reggersi ancora