I disordini razziali innescati dall’uccisione di un ragazzo afro-americano a Ferguson mostrano i danni provocati dagli stereotipi e dai pregiudizi etnici e la loro influenza nefasta specie su coloro che, titolari di una funzione pubblica, più dovrebbero esserne esenti. Senza raggiungere i livelli americani, le nostre Corcolle, Tor Sapienza, Giambellino ci segnalano l’urgenza di affrontare seriamente gli aspetti sociali del disagio e delle differenze che ormai anche da noi caratterizzano le periferie delle grandi città.
Come devono comportarsi gli scienziati sociali, nel cammino stretto che si apre tra il politicamente corretto (polity) e il politicamente efficace (policy)? Tempo fa un programma per le primarie del centrosinistra è stato vivacemente criticato per aver sottolineato, in riferimento al delicato tema della sicurezza e della legalità, l’esigenza di prestare attenzione ad alcune tipologie di soggetti a rischio devianza, connotati dall’essere “maschi, giovani, senza radici familiari e in condizioni di irregolarità”. La critica mossa a questo approccio investiva il possibile automatismo tra forme di devianza e situazioni di status (regolari/irregolari) degli stranieri immigrati.
La controversia riveste implicazioni decisive; di natura politica (il che balza subito agli occhi) ma anche di natura metodologica. Di gran lunga meno appariscente, quest’ultimo aspetto ha la sua importanza per le scienze sociali in quanto coinvolge un loro precipuo modo di ragionare. Prescindiamo qui dai numerosi studi che si sono proposti di verificare se, ed eventualmente in quale misura, le caratteristiche sociali, culturali, economiche dei vari gruppi etnici si correlino ai comportamenti lungo il discrimine legalità/illegalità. Quello che non si può chiedere alla sociologia è di astenersi dallo scomporre i fenomeni in variabili e di individuare correlazioni tra di loro, cioè di fare quello che, da Durkheim in poi, è il mestiere dei sociologi. A tale impostazione “positivista” si contrappone l’impostazione “idealista” (in entrambi i casi i due aggettivi schematizzano grossolanamente la complessità delle rispettive posizioni) del pensiero politico progressista. Che poi, a ben vedere, costituiscono la linea di confine tra la prospettiva analitica propria della conoscenza, che per funzionare deve circoscrivere e segmentare il proprio oggetto, e la prospettiva propositiva, propria della politica, che deve asseverare dei fini verso cui orientare l’azione.
Non stupisce, quindi, in chi pone al centro della propria visione i diritti (a cominciare dai due fondamentali: la libertà e l’uguaglianza) la diffidenza verso tutte le forme di enucleazione e segmentazione della realtà. Specie quando quest’ultima è costituite da persone, il rischio è di subordinare il caso concreto alla tipizzazione e i comportamenti dei soggetti in carne e ossa alle pretese del potere. Il timore che quest’ultimo possa strumentalizzare le conoscenze, tanto quelle impressionistiche quanto quelle scientifiche, è tutt’altro che ingiustificato. Casi del primo tipo sono ricorrenti nella tendenza degli agenti di polizia in una società interraziale a individuare nell’individuo di sesso maschile, età giovanile e appartenenza etnica “visibile” (negli Stati Uniti afro-americano, ispanico ecc.) un potenziale deviante e dunque una potenziale minaccia da neutralizzare. Sociologi di scuola etnografica hanno descritto con molta efficacia le tecniche in uso presso la polizia per identificare le persone “sospette”; resta il fatto che anche certe metodologie di profiling utilizzate nei laboratori e nelle università dai criminologi (oltre che nelle centrali di polizia) prestano il fianco a fondate obiezioni, politiche e morali ma anche scientifiche.
Il rischio del riduzionismo – cioè il procedimento per cui la realtà nella sua “infinità priva di senso” (Weber) deve, per poter essere compresa e descritta, venire circoscritta, sfrondata degli aspetti contingenti e infine, drasticamente ridotta – è ben noto al ricercatore sociale. Qui scatta la consapevolezza che fa di un semplice tecnico un “professionista riflessivo”. Indubbiamente le scienze sociali pagano l’ambizione di applicare un metodo scientifico a oggetti proteiformi come i comportamenti umani al fine di dare vita a una conoscenza intersoggettiva. Tuttavia possono, se vogliono, essere vigili, proprio in quanto conoscono i limiti del riduzionismo che, quando è incontrollato, diviene vero e proprio errore. Non si tratta di una fisima di sociologi radicali, bensì di un caveat presente nelle prime pagine dei manuali di metodologia, tanto che gli è stato dato un nome: fallacia ecologica. Tale errore consiste nel supporre, nel momento in cui si estraggono caratteristiche tipiche di una determinata classe, che tutti gli individui che appartengono a quella classe debbano per forza condividerne le caratteristiche. Questa consapevolezza dovrebbe valere a impedire di considerare il giovane maschio, che possiamo incontrare nella periferia della città, appartenente a una minoranza visibile, talvolta anche visibilmente privo di occupazione un possibile deviante. Contemporaneamente l’esigenza di tutelare la parità e l’uguaglianza tra i cittadini, ovvero tra gli esseri umani, non può impedirci, anzi dovrebbe stimolare, a vedere quanto il gruppo sociale dei giovani disoccupati nelle periferie metropolitane necessita di politiche sociali, abitative, educative, occupazionali.
Fabrizio Battistelli
Dipartimento di Scienze Sociali ed Economiche – Sapienza Università di Roma
 

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