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Se sarà Brexit

La vittoria di Cameron alle elezioni rende più concreta l’ipotesi del referendum per l’uscita della Gran Bretagna dalla UE. Le regole sono fissate dai trattati e prevedono un negoziato con il paese che chiede il recesso. Si profila comunque un lungo periodo di incertezza, soprattutto per Londra.
Una questione di regole
Dopo la vittoria dei conservatori, il referendum sulla permanenza della Gran Bretagna nell’Unione Europea polarizza il dibattito politico anglosassone. Articoli su vantaggi e svantaggi dell’appartenenza all’Unione occupano le prime pagine dei giornali, preannunciando una lunga campagna referendaria. Da qui al 2017, anno in cui dovrebbe tenersi la consultazione se David Cameron manterrà la promessa fatta in campagna elettorale, molte cose possono cambiare, ma di certo non cambieranno le regole europee che disciplinano l’uscita di uno Stato membro dall’Unione.
Le regole sono importanti perché consentono il formarsi di una posizione unitaria dell’Unione, andando a incidere sulla determinazione del “prezzo” da pagare per lo Stato che decide di uscire.
Fino al 2009 nei Trattati istitutivi europei non erano previste regole specifiche per il recesso da parte di uno Stato membro. Questo non significava che non potesse accadere: uno Stato sovrano, com’è libero di aderire a un accordo internazionale, al pari mantiene la libertà di recedervi nel rispetto delle regole di diritto internazionale. E in assenza di una disciplina specifica prevista dai singoli accordi, le regole sono quelle stabilite dalla Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati.
La Convenzione tende a considerare i trattati multilaterali come un insieme di rapporti bilaterali e lo Stato che recede deve accordarsi con i singoli membri, lasciando aperta la porta a soluzioni frammentarie.
Con il Trattato di Lisbona, gli Stati membri hanno previsto una procedura di recesso accentrata – l’exit clause – proprio per scongiurare soluzioni bilaterali tra chi resta e chi esce.
L’articolo 50 del Trattato sull’Unione Europea prevede che lo Stato che abbia deciso di recedere, in base alle proprie regole costituzionali, debba notificarne l’intenzione al Consiglio europeo; quest’ultimo formula gli orientamenti per la successiva negoziazione dell’accordo volto a definire le modalità del recesso, tenendo conto del quadro delle future relazioni con l’Unione.
La negoziazione dell’accordo segue le stesse regole previste per gli accordi dell’Unione con paesi terzi o organizzazioni internazionali. Spetterà alla Commissione presentare raccomandazioni al Consiglio affinché adotti una decisione che autorizzi l’avvio dei negoziati e designi il negoziatore o il capo della squadra di negoziato dell’Unione. Non esistono precedenti applicazioni della disposizione, ma è verosimile che la squadra sia composta da membri della Commissione, che è l’istituzione che incarna lo spirito dell’Unione ed è la guardiana dei Trattati. Se il negoziato va a buon fine, l’accordo è concluso a nome dell’Unione dal Consiglio, che delibera a maggioranza qualificata previa approvazione del parlamento europeo. I Trattati cessano di essere applicabili allo Stato interessato a decorrere dalla data di entrata in vigore dell’accordo di recesso o, se l’accordo non c’è, due anni dopo la notifica della volontà di recedere, salvo che il Consiglio europeo, d’intesa con lo Stato membro interessato, decida all’unanimità di prorogare il termine.
Ciò che colpisce della procedura è che lo Stato che recede assume per l’Unione quasi immediatamente lo status di paese terzo e i rapporti futuri vengono decisi con regole molto simili a quelle che si applicherebbero nelle relazioni con un qualsiasi altro Stato. Basterà, in seno al Consiglio, la stessa maggioranza qualificata richiesta per adottare un atto interno dell’Unione e l’approvazione del parlamento per concludere l’accordo di recesso che vincolerà l’Unione e tutti i suoi Stati membri.
La scadenza di due anni può sembrare a prima vista lunga, ma considerato il grado di integrazione raggiunto nell’Unione, i nodi da risolvere sono molti e di difficile definizione. Si tratta di alzare barriere abbattute da molto tempo e trovare un’intesa su quanto alte debbano essere non sarà facile. L’Unione dovrà tenere un alto profilo negoziale ed evitare troppe concessioni, altrimenti un’uscita vantaggiosa aprirebbe la strada a nuove defezioni e alla messa in discussione del complessivo processo di integrazione. Almeno nei primi due anni, è ragionevole ritenere che prevarrà lo spirito di difesa dell’autonomia e integrità dell’ordinamento dell’Unione, a tutela dei suo valori fondamentali quali la libera circolazione delle persone, una delle cause della disaffezione britannica.
Il costo dell’incertezza
Se i cittadini britannici dovessero decidere per l’uscita del loro paese dall’Unione, per la Gran Bretagna si prospetterebbe un periodo di incertezza, con il governo impegnato a tempo pieno su numerosi tavoli negoziali. Infatti, oltre a quello europeo, si dovranno aprire i negoziati con gli altri Stati con i quali i rapporti economici e commerciali sono tenuti dall’Unione per i suoi membri. Chiaramente, i negoziati con gli altri Stati saranno collegati alle condizioni di accesso al mercato dell’Unione che la Gran Bretagna riuscirà a ottenere. Nella migliore delle ipotesi, l’incertezza sulle regole di mercato durerà due anni, ma nulla garantisce che il negoziato con l’Unione vada a buon fine. Certo, un’uscita brutale senza regole condivise sui rapporti futuri danneggerebbe entrambe le parti, ma dell’isolamento soffrirebbe più la Gran Bretagna che l’Unione.
La storia dell’Unione Europea è stata fino a oggi una storia di espansione. La stessa Gran Bretagna, che rifiutò il progetto comunitario iniziale, fu la protagonista del primo allargamento. Se la politica dell’Unione sull’allargamento è ormai assestata, una exit policy europea deve essere ancora scritta. Un ulteriore elemento di incertezza che rende ancora più difficile prevedere le conseguenze dell’uscita di un paese dall’UE. Ma ciò che è sicuro è che l’incertezza sulle regole economiche ha un costo e anche di questo dovranno tenere conto i cittadini britannici nell’esprimere il loro voto.
 

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  1. C’è solo da sperarlo! Uk si è sempre comporatata come un free-rider nei confronti dell’Unione e ha sempre preferito accodarsi o determinare al/le posizioni USA in politica estera impedendo la nascita di una qualsiaisi foema di politica estera dell’Unione. Vorrei prorpio vedere cosa accadrebbe al PIl di UK se la City non fosse più il luogo delle regolazioni e transazioni in Euro. Se imponendo dei vincoli ai movimenti di capitale, come suggeriscono tutti i grandi macroeconomisti che hanno visto perdere di rilevanza le politiche si tassi d’interesse, si impedisse lo spostemento senza costo dei capitali verso Londra. Vorrei anche vedere cosa accadrebbe alla loro bilancia delel partite correnti se venissero alzati dei dazi UE verso le merci UK. La statistica appena pubblicata da Eurostat indica nell Inner London la regione più prospera dell’Unione con un reddito pro-capite pari al 325% del reddito medio UE a 28 paesi. Vorrei anche vedere cosa accadrebbe al PIL di UK, di quanto si ridurrebbe e cosa accadrebbe alla loro immota e ineguale società. Un bluff senza storia!

  2. Alessandro

    Sarà un disastro per noi dell’europa meridionale…. almeno adesso con l’Inghilterra la Germania si frena poco poco…. senza Inghilterra potremmo semplicemente cambiare la cartina d’europa scrivendoci sull’unione semplicemente “Deutschland”

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