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Brexit, dal pasticcio al caos

Per la Brexit è arrivato il momento della resa dei conti. All’ultimo minuto Theresa May rinvia il voto del Parlamento sull’accordo raggiunto con la Ue dopo due anni di trattative. La sconfitta apre una fase ancor più caotica della storia del Regno Unito.

Tre batoste parlamentari per Theresa May

Nel film Przypadek, un incontro fortuito e a prima vista irrilevante conduce il protagonista a tre destini, la cui graduale ma radicale divergenza è descritta dal regista polacco Krzysztof Kieślowski in tre opposte sequenze di eventi. Gli storici futuri potranno identificare un momento simile nei rapporti tra Ue e Regno Unito nella decisione, in seguito definita idiota, di un paio di deputati laburisti di aggiungere il loro nome al modulo della candidatura di Jeremy Corbyn a leader laburista, pur non avendo alcuna intenzione di votarlo, ma per permettergli di competere, con il fine di “ampliare il dibattito” interno al partito. La storia non si fa con i “se”, ma credo davvero che se i due non avessero preso questa decisione, oggi il primo ministro David Cameron e il capo dell’opposizione Yvette Cooper, si scontrerebbero ai comuni sull’atteggiamento di politica estera che la Ue dovrebbe tenere verso la crisi in Ucraina e l’attacco alla libertà accademica in Ungheria.

Invece, quando non sono impegnati in distopiche discussioni da film post-apocalittico, i politici inglesi si azzannano per la Brexit. Da un lato, il governo offre promozioni e cavalierati a deputati tory vacillanti, dall’altro l’opposizione rispolvera l’umile richiesta, un arcano e desueto regolamento parlamentare, con il quale sconfigge il governo tre volte.

Se l’accusa di vilipendio al Parlamento per il rifiuto di pubblicare l’opinione sull’accordo porta l’avvocato dello stato alle lacrime, anche perché è la prima volta nei sette secoli di vita del Parlamento, la sconfitta più bruciante è la vittoria della mozione dell’ex-ministro Tory Dominic Grieve. Permetterà ai deputati di proporre emendamenti a ogni proposta del governo successiva a un eventuale voto contrario all’accordo con la Ue, di fatto assegnando al Parlamento la decisione finale sui rapporti con la Ue. È un duro colpo alla strategia del divide et impera che il governo sperava di seguire. L’idea era quella di far votare il Parlamento, prima del voto finale di martedì 11 dicembre su vari possibili scenari che potrebbero verificarsi in caso di bocciatura dell’accordo. Così ogni alternativa (dal secondo referendum al trattamento diverso tra Irlanda del Nord e Gran Bretagna) sarebbe stata eliminata e il dibattito ai comuni sarebbe finito con un aut-aut netto, senza se e senza ma: o “no deal” o il trattato firmato da May con la Ue. La speranza era che un numero sufficiente di deputati pro-europei preferisse la padella della proposta May alla brace dell’assenza di ogni accordo.

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Ora che l’opinione legale è pubblica, è anche ovvio perché il governo era restio a pubblicarla: il documento chiarisce che il Regno Unito non potrà lasciare l’unione doganale senza il consenso della Ue, e sulla spinosa questione dell’Irlanda del Nord non lascia dubbi sul fatto che, senza un accordo specifico sul commercio da concludersi entro il 2022 “la Gran Bretagna sarà alla stregua di un paese terzo per quanto riguarda scambi tra l’Irlanda del Nord e la Gran Bretagna”: come per la nazionale di rugby non ci sarà divisione tra le due Irlande, ma ci sarà separazione tra l’Irlanda del Nord e la Gran Bretagna. Ironico che la separazione legale del Regno sia proposta da un partito il cui nome ufficiale è “conservatore e unionista”.

Cosa succederà?

Con un cambio di marcia disperato, dopo aver ribadito fino a un’ora prima che non lo avrebbe fatto, Theresa May ha posticipato il voto, nella assoluta certezza che ne sarebbe uscita strapazzata, visto che oltre 100 parlamentari tory avevano dichiarato che si sarebbero schierati come tutti gli altri partiti contro l’accordo. È davvero impossibile azzardare previsioni. Da un lato le posizioni si chiariscono, i costi drammatici della Brexit diventano sempre più evidenti, il ministro dell’Economia cambia tono e ammette che l’economia peggiorerà, mentre la Bank of England stima vari scenari e prevede una perdita secca del Pil del 10 per cento (figura 1) qualora non ci sia un trattato con la Ue, attirando sul governatore insulti su insulti. Dall’altro lato, però, i sondaggi mostrano solo un leggero spostamento anti-Brexit dovuto soprattutto al cambio demografico dal giugno 2016, giovani che diventano maggiorenni sostituiscono gli anziani che muoiono, pochissimi elettori sembrano cambiare idea.

In teoria, l’emendamento Grieve sposta il potere decisionale dal governo al Parlamento; in pratica, in mancanza di una costituzione formale, il governo potrebbe ignorarlo e ha infatti già messo le mani avanti spiegando che lo status quo rimane l’uscita senza accordo. Non penso, però, che riuscirebbe facilmente a spazzarlo via del tutto, visto che, come uno squalo che sente odore di sangue, con le tre vittorie in aula il Parlamento è uscito dalla paralisi che nei due anni successivi al referendum del 2016 lo ha reso imbelle e sordo a qualunque scemenza uscisse dalla bocca del governo e dei brexiter.

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Le spaccature interne ai due partiti principali creano situazioni paradossali: ci sono deputati tory che implorano Corbyn e la leadership laburista di opporsi al governo del loro partito e c’è un governo che accusa il Parlamento che lo sostiene di tradire la democrazia. Perché l’accordo entri in vigore un voto del Parlamento è obbligatorio per legge. Anche nel caso in cui la sconfitta fosse numericamente pesante, non è ovvio che Madam May si dimetta: potrebbe rimanere in carica, in equilibrio tra gli opposti estremismi dei due gruppi del partito che le si oppongono, per gestire un secondo referendum, nonostante lo abbia escluso categoricamente, sul quale comunque gli elettori appaiono confusi. Consoliamoci almeno, con l’effetto più inatteso della Brexit: l’emergere di note di umorismo nella sinistra marxista e addirittura in Germania.

Figura 1

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  1. Savino

    Ci si renderà conto quanto vale senza Europa uno Staterello diviso in 4 mini-Stati più colonie sparse. Non stanno dividendo l’UE, ma stanno sicuro frazionando lo UK.

    • Henri Schmit

      Osservazione molto pertinente: la forza dell’UE di cui tanto ci lamentiamo sta SUO MALGRADO disintegrando il Regno Unito e forse pure il Commonwealth: Australia e Canada come l’India daranno la preferenza di una accordo commerciale con l’UE piuttsoto che con l’UK; l’hanno già detto. Peggio: due esponenti del governo norvegese hanno detto che non sarebbe nel loro interesse ammettere l’UK nell’EFTA, per pura logica dei numeri: perché concedere all’UK un diritto di veto che condiziona i rapporti della N con l’UE?

  2. Henri Schmit

    L’intera vicenda è una bellissima lezione di democrazia, un ammonimento. Mostra l’assurdità di voler ridurre la democrazia a una scelta maggioritaria fra due soluzioni. Questa illusione (errore o inganno) corrisponde al vizio profondo del populismo. Sieyès (se posso fare il dotto) lo chiamava “adunazione”, il processo di arrivare da un’infinità di alternative, di posizioni, di interessi, di preferenze ad una soluzione razionale condivisa. Già il voto è difficile se le alternative sono più di due (come adesso per la Brexit). Ma la questione è ancora più complessa perché bisogna prima formulare le alternative, definire l’agenda. A questa problematica non da poco i Britannici sono riusciti ad aggiungere il dilemma (un po’ fasullo) fra decisione (più facile perché articolata e fra meno attori) del Parlamento e verdetto del popolo. Ricordiamo che la maggioranza al referendum era diversa di quella parlamentare. Solo consultivo (un ipocrisia incredibile), il verdetto è ora invocato da tutti come giudizio ultimo del vero sovrano (informato o meno, ingannato o meno). Fantastico! L’uso del referendum strumentale (Cameron intendeva zittire l’opposizione anti-UE), di tipo plebiscitario, si è rivolto, come accade spesso, contro i suoi artefici. Il Parlamento, spinto dal verdetto con le spalle al muro, non è più in grado di decidere. Quello che tanti sperano, un nuovo referendum che rovesci il precedente, sarebbe comunque un disastro, a meno che il margine sia molto, molto ampio.

  3. zipperle

    Penso che in questa circostanza valga il paradosso di Condorcet, tipico delle democrazie rappresentative, che unito all’ammissibilità dell’espressione referendaria su materie molto delicate per la stabilità dello Stato può portare UK ad una grave recessione.
    Ed è impressionante come i media abbiano valutato gli effetti della Brexit fino ad ora: sin dal referendum gran parte degli economisti, accademici e non, ammonivano sugli esiti negativi della scelta di uscire dalla UE, ma siccome dal giugno 2016 ad oggi l’economia britannica ha continuato a crescere (anche grazie all’unico effetto immediatamente evidente, il deprezzamento multilaterale della GBP), commentatori e giornalisti pronti a sottolineare come anche in questa circostanza gli economisti hanno sbagliato.
    Complimenti a G. De Fraja per l’attenta e spesso sagace analisi che da tempo svolge sulla Brexit.

  4. Danilo Cussini

    Mi domando a quanti inglesi (non britannici, inglesi) interessi veramente qualcosa dell’Irlanda del nord. Tutta questa storia è nata da uno sciagurato referendum voluto da Cameron, quindi penso che sarebbe giusto chiuderla con un altro referendum di approvazione dell’accordo; almeno questa volta la discussione non sarebbe solo teorica.

  5. Gianni De Fraja

    Grazie per i commenti (e, zipperle, i complimenti); mi trovano d’accordo, dalla definizione di “sciagurato” del referendum, al conflitto sociale che un secondo referendum causerebbe, e l’isolamento e il frazionamento che Brexit causerà (causerebbe?). Per quanto riguarda le domande di Danilo. L’Irlanda del Nord ha un valore emotivo per gli inglesi difficile da valutare. Forse l’analogia più vicina sono i baschi in Spagna. La storia insanguinata, unita a repressioni ancora vive nella memoria, rendono ogni status quo terribilmente precario, e molto difficile, per gli inglesi abbandonare la provincia al suo destino. Tony Blair considera l’accordo del venerdì santo come uno dei principali successi della sua carriera. Cosa direbbero i milanesi, gli emiliani, i siciliani, se l’Italia cedesse l’Alto Adige all’Austria?

    • Henri Schmit

      Per completare (fuori tempo) i commenti alla Sua interessante analisi rinvio ad un articolo firmato Peter Walker pubblicato il 15 dicembre su The Guardian “How would a second referendum on Brexit work?” Il giornalista si riferisce ad uno studio dell’University College London per spiegare tempi, possibili effetti sospensivi, distinzione dei tre o quattro quesiti, modalità di voto e di calcolo dei voti. Il parere degli esperti inglesi assomiglia molto alle mie considerazioni precedenti.

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