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Così i dipartimenti bloccano la riforma dell’università

La riforma Gelmini ha introdotto criteri meritocratici nell’università italiana. Ma lo spirito della legge è talvolta vanificato dalle scelte dei dipartimenti, specie se le abilitazioni sono di massa. Servono criteri trasparenti e verificabili ai quali i consigli siano obbligati ad attenersi.
I meriti della riforma
La legge Gelmini è stata indubbiamente una riforma importante, innovativa e meritocratica dell’università italiana. Fino a poco tempo fa potevano aspirare a diventare professori solo coloro che, a prescindere dalle pubblicazioni e dai meriti scientifici, avevano i rapporti di amicizia giusti nel mondo accademico, specie nel Mezzogiorno.
Anche lavoce.info ha documentato in diverse occasioni come i concorsi pubblici locali, con i quali è stata decisa la classe docente delle università dalla fine degli anni Novanta al 2010, abbiano seguito regole poco meritocratiche, con commissioni costituite spesso da docenti senza pubblicazioni sufficienti che assegnavano il titolo di professore a candidati il cui merito principale era la colleganza con membri della commissione stessa o del dipartimento e gli scambi di favori erano all’ordine del giorno.
La riforma Gelmini ha cambiato molte cose, obbligando almeno a tener conto delle pubblicazioni dei candidati. Non è un caso se in molti atenei dominati dalle stesse famiglie per generazioni, si affacciano ora altri cognomi, magari di studiosi di maggior talento.
Certo, la riforma è ancora incompleta e c’è molto da fare per rendere i criteri delle abilitazioni sempre più stringenti, poiché, nell’università italiana, la discrezionalità diventa subito arbitrio, quando non abuso. Ad esempio, alcuni settori scientifico-disciplinari hanno abilitato una percentuale alta di candidati, non rispettando lo spirito della legge e ingolfando il sistema in una condizione di risorse scarse. Tuttavia, il principale problema sembra essere l’applicazione della riforma a cascata sui territori.
Dove nasce il problema
La legge Gelmini rischia di cadere sulla trincea dei dipartimenti, che non si è avuto il coraggio di abbattere, ma dietro la quale le “armate baronali” si stanno riorganizzando per riconquistare le posizioni perdute.
Su lavoce.info Maria De Paola e Vincenzo Scoppa hanno mostrato che la discriminazione di genere si è ridotta nell’acquisizione delle abilitazioni, ma non lo è affatto per quanto riguarda l’effettiva chiamata in cattedra da parte dei dipartimenti, come notato in un altro contributo.
Esiste già un’ampia aneddotica su come le chiamate degli atenei fra i tanti abilitati avvengano secondo le vecchie logiche, tanto più quando le risorse sono scarse e le abilitazioni di massa.
Il motivo è che la legge Gelmini non ha voluto affrontare il tema della governance dei consigli cosiddetti “ristretti” e “semi-allargati” dei dipartimenti-facoltà.
Il consiglio di dipartimento nella sua composizione ristretta è costituito da ordinari e decide, in via esclusiva, sulla chiamata dei nuovi ordinari. Il consiglio semi-allargato è composto invece da ordinari e associati e decide sulla chiamata degli associati. Spesso, in realtà, anche queste decisioni sono prese dal consiglio ristretto e solo ratificate dal semi-allargato, poiché gli associati difficilmente si oppongono, per timore di ritorsioni sulla loro stessa futura carriera accademica.
Origini e conseguenze di un “potere assoluto”
Per rispetto del principio dell’autonomia didattica degli atenei, la legge Gelmini ha delegato loro la scelta di chi fra gli abilitati dovesse essere chiamato per primo, forse nella erronea presupposizione che ci sarebbero state risorse per chiamare tutti. Ciò ha lasciato un vuoto di potere che la mentalità baronale ha ovviamente interpretato come un’autorizzazione a esercitare il diritto atavico a fare quello che vuole.
Preoccupati degli scontri che ciò avrebbe provocato nei dipartimenti, i senati accademici di alcuni atenei hanno formulato linee guida (non vincolanti) per tentare di orientare in senso almeno blandamente meritocratico le decisioni. Tuttavia, i consigli ristretti le hanno spesso semplicemente ignorate.
A causa della opacità della legge e anche dei regolamenti di ateneo sui poteri del ristretto e le regole di deliberazione, le decisioni sono spesso prese in modo discutibile, se non arbitrario, proprio come era prima della legge Gelmini.
Le scelte sono fatte in base ai rapporti di potere esistenti all’interno dei dipartimenti. Da una valutazione di carattere scientifico, si passa automaticamente a una sorta di conta degli amici e dei nemici, che fa vincere non i più bravi, ma i più abili nel creare alleanze politiche nelle facoltà. Insomma, i nuovi professori tornano a essere “nominati” in base a una elezione politica in cui gli unici aventi diritto al voto attivo sono i membri del consiglio ristretto. Ritornano anche gli scambi di favori fra baroni e tutte quelle pratiche che tanto hanno nuociuto all’immagine pubblica dell’università italiana. Intanto, i nuovi regolamenti di ateneo sembrano tutti orientati a sancire come diritto questa prassi contraria allo spirito della riforma.
Senza definire dall’alto criteri chiari, trasparenti, verificabili; senza obbligare perciò i consigli a giustificare le proprie scelte e a renderne conto, se necessario, di fronte alla legge, la riforma rischia di essere neutralizzata nel tempo, come già è stato per quella del 3+2.

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16 commenti

  1. Giovanni Federico

    La composizione dei consigli di dipartimento è un problema assolutamente irrilevante – le chiamate sono quasi sempre decise in conciliaboli, più o meno ristretti, prima delle riunioni ufficiali. Il principale difetto del sistema attuale è la assoluta prevalenza delle chiamate di interni a scapito degli abilitati esterni, magari di maggior valore. L’estensione delle decisioni a tutti i docenti aggraverebbe solo questo difetto. Aumentando il potere dei potenziali chiamati e l’incentivo per accordi collusivi. La legge Gelmini ha tentato di porre rimedio, incetivando la mobilità, premiando le chiamate per merito (sulla base della VQR) e imponendo un minimo di chiamate di esterni , ma si scontra con abitudini inveterate, problemi di convivenza e finanziari (l’argomento principe della chiamata degli interni è il loro basso costo) e con l’abilità ‘interpretativa’ delle regole che contraddistingue i professori universitari, La VQR potrebbe essere utile ma solo nel lungo periodo. Non esistono soluzioni semplici. La più efficace sarebbe un divieto di promozioni interne ma potrebbe essere aggirato con scambi fra università ed in ogni caso non sembra avere alcun consenso (un tentativo di adottarla con la riforma Berliguer dei concorsi fu subito bocciato dalle lobby accademiche)

  2. Arianna

    Vero, Francesco. ‘Buono’ il tuo articolo. Una collega del tuo Ateneo

    • Docente

      Non posso firmarmi per ovvi motivi. Ritengo che l’articolo abbia fondamentalmente ragione, in quanto l’attuazione della riforma non premia certo il merito.
      Non sono molto d’accordo sul fatto che ora le cose siano come prima. A mio avviso sono peggiorate, in quanto con il gran numero di abilitati le chiamate cosiddette “valutative” (gli addetti ai lavori sanno di che cosa si tratta) sono un modo per immettere in ruolo persone senza alcun vaglio esterno.
      Tra l’altro, questa riforma si è sommata al piano straordinario per gli associati che, grazie alle abilitazioni facili, ha permesso la promozione di molti ricercatori, sia bravi che meno bravi.
      Il risultato è che gli associati sono ormai peones come lo erano prima i ricercatori, e il potere degli ordinari è ulteriormente aumentato.

    • AM

      Condivido pienamente il commento di Luciano Munari.In alcune discipline vi sono stati risultati eccessivamente influenzati dagli interessi delle varie scuole. Anche i criteri sono stati difformi. In certe commissioni vi è stata generosità generalizzata mentre in altre vi è stata maggiore severità. Il commissario straniero nella maggioranza dei casi è stato del tutto ininfluente anche perchè inidoneo a giudicare a causa di mancanza di competenza specifica

  3. Luciano Munari

    Se ci si illude che la riforma abbia introdotto un criterio di merito nelle carriere universitarie ci si sbaglia di grosso. Ha solo sostituito un sistema di potere ad un altro (come accade in tutte le rivoluzioni) e una baronia ad un’altra. Ora si deve sottostare alla baronia degli editor delle riviste (molto più opaca e più difficile da contrastare di quella dei cattedratici) e la logica di privilegiare gli amici e gli amici degli amici può proseguire incontrastata. Il vero problema sta nell’onestà delle persone che devono giudicare e non nei meccanismi dei concorsi. Solo l’etica individuale può contrastare l’abuso.

  4. Alberto Rotondi

    Un articolo disinformato, non nello stile de La Voce, che dimentica alcuni punti fondamentali. Il più importante è il seguente: si otterrà una selezione efficace quando i dipartimenti saranno messi in grado di funzionare e di competere sulla qualità della ricerca. Allora sì che avranno l’interesse a chiamare i migliori. Già adesso, almeno in ambito tecnico scientifico, che è quello che conosco, lo fanno e tendono a farlo, anche se l’autore, disinformato, cerca di far credere il contrario. Se però i docenti in 10 anni sono diminuiti del 20%, i fondi di ricerca azzerati, la prima preoccupazione dei dipartimenti è tenere aperti i corsi fondamentali. Con la presenza di una Agenzia della Valutazione ma non di una Agenzia della Ricerca, con la valutazione che serve solo a tagliare i fondi di funzionamento come il riscaldamento e la tinteggiatura delle pareti, si pensa che i Dipartimenti siano stimolati a scegliere il meglio? Per scegliere il meglio bisogna 1) mettere il sistema in grado di funzionare con regole e finanziamenti certi e stabili nel tempo certe 2) valutare 3) premiare chi fa meglio. Attualmente il punto 1) non esiste. I punti successivi giudicateli voi,. Detto da un direttore di Dipartimento.

  5. Paolo Leonardi

    Non condivido quasi nulla. La riforma non è gran che. Quello cui si dovrebbe arrivare, non in un colpo, ma, mettiamo, in sei anni, dopo altre 2 VQR, è un sistema premiale punizioni comprese) sulle assunzioni e le promozioni. Assumere per cooptazione – è l’unico modo, per ragioni di competenza. SI può fare come in Svizzera, con prima short list, poi lezioni a tutto il Dipartimento, studenti compresi, con distribuzione del CV dei candidati. Infine, ogni tre anni valutare e vedere se le scelte fatte hanno migliorato o peggiorato il Dipartimento.

  6. Giuseppe

    Articolo piuttosto approssimativo su una questione molto complicata. Opinione per opinione allora dico: 1) La legge Gelmini è l’ANVUR sono state un disastro, prima lo ammettiamo e meglio sarà. 2) Alcune commissioni di abilitazione nazionale hanno agito secondo schemi da parrocchietta, abilitando soggetti con cv mediocri e negando il riconoscimento ad altri colleghi decisamente più blasonati e produttivi. 3) Quanto alla speranza dell’autore, di concentrare tutto il potere dei consigli nelle mani degli Ordinari, mi sembra una visione semplicistica del problema della definizione di criteri realmente in grado di riconoscere il merito accademico

  7. Alberto Rotondi

    Qui si continua a ragionare ignorando i fatti, che sono quelli che ho detto prima. E’ normale che nella programmazione i più anziani ordinari, che non hanno conflitto di interessi a livello personale, siano quelli che pesano di più nella programmazione. E’ così in tutto il mondo. Però la mancanza di risorse falsa tutto il meccanismo. Il CdA mi ha dato un punto di personale da spendere per il reclutamento. Se prendo un esterno ho una posizione. Se proimuovo degli interni bravi ho 2 o tre posizioni. Ho il Dipartimento senza personale che chiude i corsi e che vive sulle ore in più di didattica che fanno i ricercatori. Se ho tre ricercatori bravi che se non vengono promossi tirano i remi in barca, promuovo loro o chiamo un esterno più bravo chiudendo due corsi? E poi contano i corsi e le linee di ricerca del Dipartimento. Chiamo un interno un po’ meno bravo ma che è leader di un gruppo di nanotecnologie che tira e pubblica o chiamo un esterno più bravo che studia teorie di campo con automi cellulari, ricerca che nessuno nel mio dipartimento fa? Facile cazzeggiare sui baroni, ma i fatti sono ben diversi. Quanto alla legge Gelmini, potrebbe anche essere una legge funzionante, ma in un paese normale che eroga le risorse minime all’università, non in questo contesto.

  8. Amegighi

    A me sembra che si continui a girare intorno all’utopia senza badare alla sostanza (sono daccordo con Alberto Rotondi). Inutile pensare di avere un sistema meritocratico se ci si basa su un sistema di valutazione “esterno” o “terziario”. Si passa dai Concorsi alle Commissione ai sistemi bibliometrici (sono poi così corretti, questi, visto che da molte parti iniziano ad assumere sempre meno valore ?) e di nuovo a commissioni di valutazione.
    Perchè, invece, non adottare pienamente il metodo americano ? Il Dipartimento (tutti i Docenti) è responsabile dell’assunzione del Docente e ne paga le conseguenze dopo 3 anni se non ha pubblicato e se ha ricevuto brutte valutazioni della didattica (grande assente nella Gelmini). E la responsabilità si paga saltando un turno nella distribuzione ad esempio triennale del budget da parte dell’Ateneo.
    Vedrete allora che la valutazione del Dipartimento sarà approfondita e consona con la figura del Docente/Ricercatore che si cerca.
    L’abolizione dei Settori SD renderà ancora più collegiale (e responsabile) la scelta. Chi insegna una materia e ha bisogno di un collega docente sceglierà una persona che lo aiuti veramente, così come il Dipartimento che voglia aprire una nuova linea di ricerca sceglierà le persone più consone per questo.
    Mi pare semplice, ma forse proprio per questo si è fatta una riforma che francamente è penosa (d’accordo con Giuseppe).

    • marcello

      E quale sarebbe questa sancta sanctorum tra le regole di selezione? L’indice Scopus, il numero di citazioni, la somma degli impact factor delle riviste su cui si è pubblicato, l’indice pesato x gli anni di ricerca, il numero di pubblicazioni su riviste di fascia A, il numero di pubblicazioni nella A+ della Kiel list, il numero di pubblicazioni su una delle top 5% delle riviste, ovvamente il tutto ex.post dopo che si sono concluse abilitazioni nazionali, vqr ecc.? Vorrei ricordare che per definizione gli ordinamenti non sono invarianti e per di più sono soggettivi, inoltre se multicriteriali presentano forme rilevanti di dipendenza. E se il problema fossero le risorse scarse, cioè il fatto che il ns sistema è finanziato con risorse pari a poco più del doppio di Harvard?

      • Amegighi

        Ho partecipato alla selezione (meglio, scelta) di colleghi in un’Università americana di medio livello. Il tutto si è risolto in modo estremamente semplice attraverso un colloquio, in cui si valutavano le linee di ricerca del collega, la loro congruità con quello che il Dipartimento (tutto; 100 docenti) voleva, la voglia del collega di interagire con gli altri e la sua disponibilità ad insegnare nella materia per la quale il Dipartimento aveva fatto richiesta. Tutto qui, senza indici, settori o altro.
        Sostanzialmente si valutava: a. capacità di ricerca; b. carattere dell’individuo; c. capacità didattica. A seconda delle esigenze a, b, o c vengono enfatizzati. Se voglio un Nobel prediligo a; se voglio un ottimo professore capace di attrarre studenti nel corso attivato dal Dipartimento prediligo c. Se voglio una persona in grado di interagire prediligo b.
        La semplicità della valutazione sta nel fatto che, come in un’impresa, la responsabilità della scelta ricade sul Dipartimento stesso. Se dopo 5 anni la persona o non pubblica bene, o si rivela un incapace professore (pochi studenti si iscrivono al corso) o, peggio, semina zizzania, e quindi non viene rinnovato, il Presidente dell’Università fa saltare per un turno (5 anni) la distribuzione del budget al Dipartimento stesso.
        Gli indici bibliometrici, quindi, non sono il mezzo con cui fare selezione. Nè lo sono i settori, nè tantomeno le Commissioni nazionali. Ma solo un semplice colloquio di lavoro, come tanti altri.

  9. Ricercatore TD

    Per carità, la questione è tutt’altro che semplice. Io però vivo sulla mia pelle le conseguenze della situazione esattamente come descritta da Pastore. Con un elemento aggiuntivo. Sono un Ricercatore a TD, abilitato a PA che si vede “passare avanti” colleghi con maggiore anzianità dal CV assolutamente non competitivo. La ratio? Diamo la precedenza ai CV deboli, proprio per evitare che questi vedano la loro carriera definitivamente stoppata nel momento in cui saranno costretti a competere seriamente per delle progressioni di carriera! Pazzesco! Questa è la morte della meritocrazia. Ragion per cui, Signore e Signori, ho deciso di andarmene da questo paesino. Non sono il primo a farlo. Non sarò nemmeno l’ultimo. La meritocrazia funziona nel momento in cui all’innalzamento delle barriere all’ingresso e all’irrobustimento delle barriere alla progressione di carriera corrisponde un abbassamento delle barriere all’uscita. Barriere che invece sono altissime. Questo perché in questo paesino si scambia per “diritto acquisito” un “privilegio”. Brinderò a Champagne il giorno in cui io stesso, in qualità di dipendente pubblico, potrò essere definitivamente messo alla porta dal mio Ateneo per manifesta incompetenza. Brinderò a Franciacorta il giorno in cui sarà finalmente inserito un meccanismo di de-progressione di carriera (non fai un accidente? da PO passi a PA, poi a RTD e infine a “meritatamente disoccupato”) che liberi risorse fresche. Ma è pura fantascienza…

  10. Damiano

    Mi risulta che dalla abilitazione siano state tolte le pubblicazioni peer review, l’unico metro di giudizio meritocratico. Vorrei conferma, mi sembra molto importante.

  11. davide445

    In fondo la soluzione l’hanno trovata in molti ed anche per altri problemi: i migliori lasciano il paese e vanno all’estero, con tutto il rispetto per i bravi che comunque rimangono qui. La baronia come la mafia e la buracrazia sono un cancro, che si può uccidere solo togliendogli il nutrimento, ossia i giovani ricercatori da sfruttare. Quando avranno il deserto con cui parlare vederemo cosa sono in grado di fare da soli.

    • marcello

      Forse tra quelli che restano, ci sono i anche i migliori, che fanno ricerca senza soldi, che insegnano più di quelli che sono all’estero, magari in corsi internazionali, che costruiscono relazioni professionali internazionali basate sulla stima accademica, che fanno centinaia di esami l’anno perchè in Italia esistono 10 appelli, non uno o due, che pubblicano comunque su riviste prestigiose (top 5%), lavorando da soli perchè non hanno assegni di ricerca per i meritevoli ecc. Certo queste generalizzazioni sono la quintessenza del nulla.

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