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L’abilitazione scientifica nazionale si basa, almeno in parte, su misure “bibliometriche” di produttività e qualità accademica. Senza rinunciare a valutazioni qualitative dei singoli lavori di ricerca, possono rappresentare un filtro minimo. Anche in settori restii ad accettarle, come il diritto.

Indici bibliometrici e carriera nell’università

Le modalità del reclutamento dei docenti universitari in Italia continuano ad alimentare un dibattito serrato, anche dopo la riforma Gelmini. Di recente, su lavoce.info ho affrontato il tema concentrandomi in particolare sugli incentivi delle singole università (qui e qui). Mi soffermo ora sulla abilitazione scientifica nazionale come filtro minimo, e specificamente sulla rilevanza di indici bibliometrici. Non lo faccio in generale, date le differenze tra settori diversi, bensì per un’area più refrattaria di altre all’impiego di queste misure, ossia gli studi giuridici.
Dico subito che le misure bibliometriche non possono condurre a rinunciare a valutazioni qualitative, inevitabilmente fatte da altri studiosi, sul merito dei singoli lavori di ricerca. Ma possono dare informazioni utili anche per i giuristi.
Sino ad ora, i criteri usati per i settori non-bibliometrici, incluso il diritto, si sono appuntati su numero di articoli e monografie. Seppur non del tutto inutili, queste misure sono tra le meno rilevanti: quantità non significa qualità, e tra le due può esservi una correlazione inversa.
Più interessanti sono le misure di “visibilità” accademica, basate sulle citazioni da parte di altri studiosi e sull’impatto delle riviste su cui si è pubblicato. Ve ne sono molte, che tengono conto di diversi elementi; una delle più famose, per esempio, è l’indice H delle citazioni, nelle sue diverse configurazioni.

Misure utili anche nel diritto

I giuristi che si oppongono all’utilizzo di queste misure sostengono che la ricerca non è una gara di popolarità, e tante citazioni non significano qualità. Possono esservi distorsioni, come citazioni critiche che contano quanto quelle positive, autocitazioni o citazioni fatte da amici e colleghi. Vero, ma a parte che le misure stanno diventando sempre più raffinate e in grado di depurare gli errori di questo tipo, le critiche dimenticano che non si tratta di usare gli indici come unico strumento, ma semplicemente come filtro minimo. Difficile che uno studioso che ha avuto un certo impatto sia meno citato di uno irrilevante, che ha solo convinto qualche amico a citarlo.
I giuristi correttamente osservano che l’oggetto dei loro studi è un ordinamento storicamente e geograficamente determinato, che si esprime in una lingua particolare (da noi l’italiano) e che quindi i loro lavori saranno sempre meno citati, ad esempio, di quelli di un immunologo che scrive in inglese.
Nulla però impone di paragonare mele con pere. I dati sulle citazioni possono facilmente essere confrontati con le medie dello specifico settore e persino dello specifico paese (si veda la figura 1).

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Figura 1

ventoruzzo

Le barriere nazionali in questo settore esistono, ma offrono anche una certa “protezione”: non sempre un giurista americano che scrive in inglese ma in un “mercato” molto più ampio è più citato di uno francese o tedesco, che scrive di un ordinamento meno noto e in una lingua meno diffusa.
Soprattutto, ricordiamo che pure nel diritto esiste ormai un importante dibattito internazionale, che coinvolge in misura maggiore o minore tutte le branche del diritto e che si svolge in inglese: i giuristi italiani (o portoghesi, o danesi) devono sapere operare tanto sul piano “nazionale”, quanto su quello “internazionale”, partecipando anche al secondo dibattito.
Nemmeno l’obiezione che le misure si basano su dati incompleti raccolti su internet tiene: ormai, e sarà sempre più così, i lavori di giuristi vengono catturati dalla rete e in ogni caso è possibile normalizzare i risultati e tenere conto di medie con studiosi soggetti a limitazioni simili.
Una ragionevole attenzione a queste misure potrebbe ampliare l’insieme delle informazioni a disposizione dei valutatori anche nel diritto. La ricerca non è il sollevamento pesi o il pugilato, e nessuno vorrebbe ridurla a un numeretto o a una hit parade, ma pur con la consapevolezza dei loro limiti e delle loro caratteristiche, i dati bibliometrici possono essere utili e dare un buon incentivo.
Per chi fosse interessato a un approfondimento, è disponibile un mio paper sul tema (da cui è tratta la figura 1).

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Non sparate (troppo) sul banchiere *

  1. Savino

    Gli avvocati di oggi sono i dottori azzeccacarbugli del terzo millenio. Spazio al merito e nel cestino gli atti giudiziari fatti con i copia e incolla.

    • Limitandomi ai docenti di diritto penale, ci sarà pure una ragione che spieghi come abbia fatto a crescere, in pochi anni, il numero dei docenti ordinari da 3-4000 a 30-40.000. Evidentemente i tradizionali criteri di valutazione sono stati ampiamente stravolti, a danno della qualità.

      • Antonino Colombo

        Sarebbe auspicabile che anche gli insider (i.e., i professori) contribuissero a fornire una risposta a tali domande (il fenomeno – credo – non è limitato al settore del diritto penale). Quanto dipende dalle regole formulate dal centro (parlamento/ministeri) e quanto dai comportamenti concreti tenuti in periferia (singoli atenei/dipartimenti)?

      • morselli elio

        c’è un grosso errore nel mio commento:
        mi riferivo alla totalità dei docenti ordinari universitari e non soltanto a quelli di diritto penale. Questi ultimi saranno aumentati da 20 fino a 100 all’incirca.

  2. Antonino Colombo

    Breve osservazione a sostegno delle tesi di Ventoruzzo. Per alcuni settori (ad es., quello bancario / finanziario) il diritto è sempre meno legato alle specificità storiche e geografiche: non è più così raro leggere norme italiane che costituiscono una mera traduzione (per lo più dall’inglese)! Oltre al grave problema della bontà della traduzione, il vero tema “politico” è: come sono formati gli standard-setting bodies internazionali? da chi? come elaborano e come producono le “norme”? quali influenze subiscono (e da parte di chi)? quali interessi prendono in considerazione? come li soppesano e li bilanciano? Per fornire risposte a domande del genere, c’è urgente bisogno di giuristi in grado di confrontarsi con i colleghi stranieri. E i criteri di selezione e valutazione dei professori universitari non possono ignorare una simile realtà.

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