L’introduzione di indicatori di benessere equo e sostenibile nella definizione delle linee programmatiche del governo segnala l’ambizione di considerare grandezze che vadano oltre il Pil anche nella fase di disegno delle politiche. Sfide metodologiche che necessitano di investimenti in ricerca.
Una svolta nella valutazione delle politiche per lo sviluppo sostenibile?
Nonostante le tante buone pratiche internazionali, l’Italia non si è ancora dotata di un robusto sistema di valutazione delle politiche pubbliche – prima e dopo la loro attuazione – soprattutto con riferimento a grandezze rilevanti per il benessere dei cittadini, quali ad esempio quelle relative agli aspetti sociali e ambientali. Raramente, le leggi che contengono “riforme di sistema” prevedono a priori la predisposizione di meccanismi trasparenti di valutazione, condizione questa essenziale per rendere a posteriori il processo pienamente efficace. Questo stato di cose sta, finalmente, per cambiare, grazie a due novità legislative di grande portata, almeno in teoria. La prima deriva dall’approvazione, a dicembre 2015, della legge 221 (cosiddetto “Collegato ambientale” predisposto dal governo Letta nella legge di stabilità per il 2014). La legge prevede la costituzione del “Comitato per il capitale naturale” con il compito di redigere annualmente, a febbraio, un rapporto sullo stato del capitale naturale del paese, con informazioni e dati ambientali espressi in unità fisiche e monetarie, da presentare al governo per fornire scenari rilevanti per la predisposizione dei documenti di programmazione economico-finanziaria. Il rapporto deve contenere valutazioni ex ante ed ex post degli effetti delle politiche pubbliche sul capitale naturale e sui servizi ecosistemici. La stessa legge obbliga il governo all’elaborazione della Strategia italiana di sviluppo sostenibile, al fine di delineare gli interventi volti al raggiungimento degli obiettivi dell’Agenda Onu 2030, sottoscritti dall’Italia, insieme ai governi di altri 193 paesi. Con l’approvazione dell’Agenda 2030, la comunità internazionale ha espresso, in maniera più evidente rispetto al passato, un chiaro giudizio sull’insostenibilità dell’attuale modello di sviluppo, non solo sul piano ambientale, ma anche su quello economico e sociale. Il programma prevede l’impegno a raggiungere entro il 2030 diciassette obiettivi (Sdgs) – tra cui la lotta alla povertà, i diritti delle donne, la salute, l’innovazione e l’occupazione, l’eliminazione delle disuguaglianze, le tematiche ambientali – articolati in 169 target (per ulteriori informazioni consultare il sito Asvis). Lo stato di ciascun paese rispetto ai target verrà monitorato annualmente utilizzando circa 240 indicatori, alcuni dei quali ancora da sviluppare. Si tratta di una significativa “operazione trasparenza”, che estende a tutti i paesi, compresi quelli sviluppati, l’approccio adottato per quelli in via di sviluppo nell’ambito del programma Onu del 2000, orientato al raggiungimento degli obiettivi di sviluppo del millennio. La seconda novità legislativa riguarda, nell’ambito della riforma della legge di bilancio (approvata in via definitiva dal Senato il 28 luglio), l’elaborazione di un allegato al Documento di economia e finanza dedicato agli indicatori di “Benessere equo e sostenibile” (Bes), sviluppati negli anni scorsi dall’Istat e dal Cnel. Nell’allegato dovranno essere riportati l’andamento degli indicatori nell’ultimo triennio e le previsioni di evoluzione nel periodo di riferimento “sulla base delle misure previste per il raggiungimento degli obiettivi di politica economica e dei contenuti dello schema del Programma nazionale di riforma”. La legge dispone anche la predisposizione di una relazione da presentare al parlamento entro il 15 febbraio di ogni anno, nella quale sono valutati gli andamenti degli indicatori Bes alla luce degli effetti attesi della legge di bilancio.
Dalla teoria alla pratica: serve un investimento in ricerca non trascurabile
Com’è facile intuire, le modifiche approvate rappresentano un’evoluzione sostanziale nei documenti di programmazione economico-finanziaria e soprattutto determinano un cambio di passo nelle finalità di utilizzo degli indicatori di benessere, realizzando quanto originariamente indicato al momento dell’avvio del rapporto Bes. D’altra parte, come sottolineato nelle audizioni dell’Istat e dell’Upb, non è semplice utilizzare tali indicatori per definire le scelte politiche perché non sono disponibili con la stessa tempestività di quelli economico-finanziari e soprattutto mancano strumenti di previsione adeguati a valutare l’impatto delle politiche sulle dimensione del Bes. Per colmare le discrepanze sarebbe quindi necessario un significativo investimento in ricerca, sia statistica sia modellistica, parallelamente a un forte impegno istituzionale da parte dell’Istat, del ministero dell’Economia e degli altri dicasteri competenti. Le difficoltà metodologiche non possono rappresentare né un limite, anche in ragione delle competenze specifiche acquisite su queste tematiche dal nostro sistema statistico e di ricerca, né un pretesto per non dotare finalmente l’Italia di un sistema di valutazione delle politiche sulla sostenibilità socio-economico-ambientale e del benessere dei cittadini. Al contrario, l’attuazione dei dettati normativi citati porrebbe l’Italia nel gruppo dei paesi all’avanguardia in questo campo.
* Le idee e le opinioni espresse in questo articolo sono da attribuire all’autore e non investono la responsabilità dell’istituzione di appartenenza.
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