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Quello che ancora manca a un Rei efficace

L’introduzione di un credibile reddito d’inclusione sembra ormai vicina. Tuttavia, restano alcune questioni aperte, come una migliore messa a fuoco dei criteri di gestione della misura e, soprattutto, la definizione del piano finanziario pluriennale.

I criteri di gestione

Negli ultimi due mesi il processo che porta all’introduzione del reddito di inclusione (Rei) ha registrato importanti progressi. È stata approvata la legge delega sul contrasto della povertà. Il governo e l’Alleanza contro la povertà hanno poi firmato un Memorandum d’intesa che specifica in maniera significativa, e persuasiva, i criteri da seguire per la realizzazione del Rei (vedi qui).
Restano tuttavia parecchie questioni aperte. Ed emergono appena si rifletta sul percorso da compiere per raggiungere, sì con gradualità ma in tempi definiti, l’obiettivo del Rei: la sua estensione a tutti i poveri, l’adeguatezza del beneficio economico, i servizi territoriali che offrono efficaci percorsi di inclusione.
In primo luogo, serve un’ulteriore riflessione sui modi di gestione del Rei, che rafforzi la capacità di “apprendere dall’esperienza”, essenziale per apportare gli aggiustamenti che via via risulteranno opportuni. Ciò si impone in almeno due direzioni:
– fornendo linee guida per limitare drasticamente i “falsi negativi” e i “falsi positivi”, cioè i fenomeni di esclusione dal Rei di famiglie che non lo richiedono pur essendo ammissibili e, all’opposto, di accesso alla misura di famiglie prive di requisiti per goderne. In particolare, per ridurre il rischio di “falsi positivi” – detto altrimenti, il rischio di frodi – torna utile tradurre l’indicazione della legge di “tenere conto […] di indicatori della capacità di spesa” in una procedura di controllo, tramite stime del reddito disponibile basate su livelli minimi di consumi presunti;
– affiancando al monitoraggio del Rei studi di valutazione dei suoi effetti (sul livello e la qualità dei consumi familiari, per i giovani che evadono l’obbligo sulla scolarizzazione, per i disoccupati sulla transizione al lavoro e così via). Sono studi che proprio l’estensione graduale del Rei consente di disegnare e condurre in modo credibile.

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Il piano pluriennale di finanziamento

Per raggiungere l’obiettivo del Rei entro un orizzonte definito è soprattutto indispensabile che il governo elabori un realistico e impegnativo “piano nazionale per la lotta alla povertà”.
La normativa lo prevede “a cadenza triennale”. Sarebbe forse più opportuno che avesse un orizzonte quadri-quinquennale, necessario per raggiungere l’obiettivo del Rei. Per un altro verso, potrebbe essere configurato come “piano scorrevole”, da aggiornare annualmente.
Entro questa cornice, il governo dovrà specificare gli obiettivi e l’impegno finanziario per il triennio in sede di disegno di legge di bilancio, a cominciare da quella per il 2018-2020.
Il reperimento delle risorse necessarie potrà – o meglio, per equità, dovrà – avvenire anche tramite “il riordino delle prestazioni di natura assistenziale finalizzate al contrasto della povertà”. Sono infatti disperse in troppi interventi, che per un verso ne minano l’efficacia – perché buona parte dei trasferimenti assistenziali sono percepiti dalle famiglie appartenenti ai tre o quattro decili superiori della distribuzione del reddito – e per un altro verso si rivolgono sovente agli stessi destinatari, sicché si prestano a comportamenti opportunistici.

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Un altro giro per la giostra degli insegnanti*

  1. Dario Micchi

    Sono cosciente che prima o poi bisogna arrivare ad un reddito minimo di cittadinanza, ma bisogna stare estremamente attenti al problema di non erogare un reddito che complessivamente (sommando al reddito minimo, le case popolari, esenzioni dal ticket, esenzioni da tutta una serie di oneri scolastici e di altro tipo) non sia uguale o superiore al reddito di un cittadino che lavora e che non ha diritto a nulla. Ho paura che stiamo andando in quella direzione e che innescherà, nel medio termine, una pericolosa fuga dal lavoro, infatti non ha senso lavorare se lavorando ottengo un reddito complessivo equivalente, uguale o maggiore di quello che ottengo lavorando. Il reddito di cittadinanza o di inclusione devono essere, complessivamente, significativamente minori del reddito da lavoro in modo che ci sia un’importante percentuale di premio a lavorare. Inoltre credo che tali importanti (e costose) provvidenze debbano essere erogate solo ai cittadini Italiani o ai residenti non Italiani di lungo periodo (almeno 10 anni di residenza continuativa con almeno il 50% del periodo in condizioni lavorative).

  2. Silvia Rebe

    Credo che pochi disoccupati vorrebbero un REI decente senza dare niente in cambio. La maggior parte preferirebbe lavorare. La maggior parte dei disoccupati sono rimasti esclusi da politiche economiche miopi e scellerate oltre che di leggi inique o inapplicate. Da una parte in molti settori si sente ripetere che c’e’ carenza di personale e dall’altra si tace il fatto che se e’ difficile trovar lavoro dopo i 30 anni, diventa quasi impossibile per gli ultra 50 enni. Cosi’ chi perde il lavoro molto difficilmente lo ritrova e potra’ sperarein una pensione. Infine pochi evidenziano la bassissima qualita’ della maggior parte dei lavori offerti, il costante sperpero dei fondi europei ed il totale scollamento tra le esigenze industriali e i corsi di formazione rivolti ai disoccupati. L’unica “arma” dei disoccupati e’ quella di non consumare, il che non e’ certo un vantaggio per il paese.

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