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Dietro le aperture cinesi, l’ombra della fuga di capitali

La visita di Trump ha permesso alle autorità cinesi di ri-annunciare l’apertura del settore finanziario ai capitali esteri. Una mossa per arginare la sfiducia delle banche straniere nelle riforme finanziarie. Anche perché a Pechino serve una moneta forte.

Aperture sempre annunciate

All’indomani della visita di Donald Trump in Cina, secondo le principali testate internazionali, uno dei risultati del vertice è l’annuncio dell’apertura del settore finanziario cinese ai capitali esteri, molto più di quanto non lo sia stato sinora.

La finanza resta a tutt’oggi uno degli ambiti più protetti e chiusi in Cina, sebbene nel protocollo di accesso al Wto nel 2001, il paese si sia impegnato a una progressiva liberalizzazione e apertura, senza restrizioni geografiche, già a partire dal dicembre del 2006. Apertura di cui ancora oggi non vi è alcun segno. È vero che dal 2004, quattro delle cinque maggiori banche cinesi, tutte di proprietà pubblica, hanno accolto partecipazioni minoritarie – Hsbc nella Bank of Communication, Bank of America nella China Construction Bank, un consorzio guidato da Royal Bank of Scotland in Bank of China e Goldman Sachs a capo di una cordata che ha investito nella Industrial and Commercial Bank of China. Ciò però non ha portato a miglioramenti dell’inefficienza nell’intermediazione della enorme mole di risparmio disponibile nel paese, perché nulla è cambiato nel grado di innovazione finanziaria e nelle regole di corporate governance, ragion per cui finora le partecipazioni estere non hanno instillato nessun meccanismo di concorrenza.

Ma in che cosa consiste l’annunciata apertura? Nelle banche e nelle società di intermediazione finanziaria verrà abolito il limite attuale del 20 per cento alla proprietà privata di ogni singola istituzione, con un massimo complessivo del 25 per cento per quelli esteri. Gli investitori stranieri fronteggeranno gli stessi limiti dei cinesi, cioè una quota massima del 30 per cento nelle banche private. Nelle società di gestione titoli e in quelle di assicurazione, il limite salirà al 51 per cento (rispettivamente dal 49 e dal 50 attuali) e dopo tre anni dalla modifica non ci sarà alcun limite.

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Benché la stampa anglosassone si sia precipitata ad attribuire l’annuncio alle pressioni americane su Pechino, a ben vedere è stato semplicemente ribadito quanto già annunciato, cioè che il governo rivedrà (non si sa quando e come) le barriere alle partecipazioni e acquisizioni estere nel settore bancario, finanziario e assicurativo, confermando quanto indicato nello scorso dicembre dalla National Development Reform Commission, l’organo preposto alla programmazione economica di medio-lungo periodo e con l’importante compito di definire le strategie di investimento cinese all’estero ed estero in Cina. Questo spiega perché gli analisti non si siano scomposti nel sentire nuovamente annunci di riforme. Quando meglio di un vertice con la prima economia del mondo, assetata di risultati da portare a casa, per ripetere l’annuncio?

Evitare la fuga di capitali

Si tratta quindi della tipica mossa opportunistica delle autorità cinesi, in un momento in cui le grandi banche internazionali, deluse dagli scarsi progressi sul fronte di un’apertura significativa del settore finanziario, bancario e assicurativo cinese alle imprese estere, hanno già iniziato a ridurre le loro partecipazioni cinesi, prima tra tutte Goldman Sachs. L’unica banca estera con una partecipazione significativa resta Hsbc con il 19 per cento di Bank of Communication. D’altra parte, c’è anche chi ha aumentato la partecipazione, come Morgan Stanley all’inizio di quest’anno, passata dal 33 al 49 per cento, il massimo consentito, nella sua joint-venture cinese Morgan Stanley Huaxin Securities, nella speranza che le riforme inizino presto.

Nel momento in cui la seconda economia del mondo si candida per diventare un polo finanziario regionale con ambizioni globali, la sfiducia delle banche estere nelle riforme finanziarie in Cina non è un bel segnale. Soprattutto però è all’origine del forte deflusso di capitali che ha contribuito al deprezzamento dello yuan, quest’anno a un minimo storico rispetto al dollaro. Una maggior apertura alle acquisizioni e partecipazioni estere è indispensabile per ribilanciare lo squilibrio tra i flussi in entrata e quelli in uscita. I primi non sono particolarmente vivaci in questo periodo. Tra gennaio e ottobre 2017 sono aumentati dell’1,9 per cento anno su anno, raggiungendo un valore di 102 miliardi di dollari, mentre i secondi hanno visto nel 2017 una battuta d’arresto, una riduzione del 44,3 per cento anno su anno, per un valore di soli 57 miliardi di dollari, per effetto dei divieti imposti da Pechino a partire dall’estate scorsa. Dietro al divieto di grandi investimenti ritenuti “irrazionali”, in realtà vi è il timore di una eccessiva fuoriuscita di capitali. È finito il tempo in cui uno yuan debole serviva all’obiettivo di tenere alte le esportazioni, ora a Pechino serve una moneta forte per evitare la fuga di capitali, esteri ma soprattutto cinesi.

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  1. EzioP1

    Tra il 2005 e 2015 la Cina ha investito 240 mil$ in 41 dei 49 paesi Africani (fonte Corriere della Sera 3 Ago 2017), e dal 2015 al 2017 61 mil$ in 4 paesi europei – UK, Germania, Italia, Francia e Spagna – (fonte Il Sole 24 Ore 7 Lug 2017).

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