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Donne al lavoro: la busta paga rimane più leggera

Sale l’occupazione femminile e diminuisce il divario salariale fra uomini e donne. Ma per arrivare a una maggiore parità di genere nel mondo del lavoro bisogna comprendere il legame tra comportamento delle imprese, dei lavoratori e dei loro colleghi.

Analisi del divario salariale

L’Istat ci ha consegnato il miglior dato di sempre sull’occupazione femminile, a gennaio pari al 49,3 per cento. I numeri italiani sono ancora lontani da quelli medi europei e la differenza con il tasso di occupazione maschile rimane marcata, ma un lento cambiamento sembra essere in atto. Anche il gender pay gap, il divario salariale tra uomini e donne, ha registrato una lieve diminuzione: i dati Inps, che raccolgono le storie lavorative e contributive di tutti i lavoratori italiani nel settore privato, rivelano che si è attestato nel 2015 in media intorno al 14,5 per cento, in calo rispetto al 15 per cento del 2011.
Ragioni sufficienti per essere soddisfatti in questo 8 marzo? Entriamo nel dettaglio dei numeri per capire meglio quali processi guidano i dati che osserviamo.
Il differenziale salariale medio nasconde, ad esempio, una notevole eterogeneità lungo la carriera lavorativa. La figura 1 mostra l’evoluzione del divario salariale di genere per diverse classi di età e per vari livelli di esperienza lavorativa, misurata dal numero di anni trascorsi dal primo ingresso nel mercato del lavoro. I primi anni di lavoro sono caratterizzati da un gender pay gap contenuto, seppure positivo. Man mano che l’età e gli anni di lavoro avanzano, l’aumento è marcato, passando per esempio dal 6,4 per cento per i lavoratori con età compresa tra 18 e 29 anni al 16,2 per cento per quelli nella fascia 30-39 anni, un incremento pari a quasi dieci punti percentuali.

Perché un aumento così marcato del divario salariale lungo la carriera lavorativa? La maternità è probabilmente la prima ragione. Le interruzioni di carriera legate alla nascita di un figlio possono comportare una perdita di capitale umano e di esperienza che si traduce in una remunerazione inferiore al momento del rientro nel mercato del lavoro, nello stesso impiego o in uno diverso. Non è però un risultato ineluttabile: la politica potrebbe fare molto per sostenere le mamme lavoratrici o le famiglie in cui entrambi i genitori lavorano e per favorire un cambiamento culturale in cui la genitorialità sia posta al centro della discussione. Eppure, questi temi non sono stati certamente i più discussi durante la campagna elettorale.

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Mobilità da azienda ad azienda

E il ruolo delle imprese? Uno dei fattori che la letteratura indica come rilevante nell’ottenere incrementi di salario nel corso della carriera lavorativa è la capacità di cambiare datore di lavoro. I dati italiani raccontano di differenze di genere nella probabilità che lavoratori e lavoratrici hanno di spostarsi in imprese “migliori”, ossia in imprese le cui politiche salariali siano tali da riconoscere una remunerazione maggiore a tutti i dipendenti, sia uomini che donne. In particolare, se classifichiamo le aziende in quattro gruppi, dove il primo è quello che attua politiche più generose verso i propri dipendenti, mentre il quarto è quello con politiche meno generose relativamente agli altri, utilizzando un campione dei dati Inps tra il 1991 e il 2012, troviamo che la probabilità che una donna cambi lavoro e si sposti in un’impresa “migliore” è di circa tre punti percentuali inferiore rispetto a un uomo.
La letteratura economica che ha analizzato il legame tra differenziali salariali e differenziali di mobilità tra lavoratori e lavoratrici ha evidenziato come uomini e donne scelgano diverse imprese in cui spostarsi lungo la carriera lavorativa anche per componenti non strettamente legate alla remunerazione (per esempio flessibilità dell’orario e part-time; disponibilità di servizi presso l’impresa). Se forme di flessibilità lavorativa o servizi per famiglie con figli fossero più diffusi tra le aziende, i differenziali di mobilità tra lavoratori e lavoratrici potrebbero ridursi, consentendo a uomini e donne di andare nelle imprese che meglio ne valorizzano il capitale umano, alle imprese di aver accesso a tutti i talenti, al differenziale salariale di scendere e all’occupazione di salire.
C’è un ulteriore aspetto che influenza la mobilità tra imprese di lavoratori e lavoratrici: le caratteristiche dei colleghi di lavoro. La figura 2 mostra come il differenziale di genere (donna-uomo) nella probabilità di spostarsi in un’impresa più generosa nelle proprie politiche salariali (controllando, tra l’altro, per età, esperienza e tipo di occupazione) vari in maniera significativa a seconda della qualità dei colleghi, dove la misura di “qualità” coglie sia l’abilità del lavoratore nello svolgere il proprio lavoro sia il suo grado di istruzione.
Nel grafico di sinistra mostriamo l’evoluzione della probabilità di spostarsi a seconda della qualità dei colleghi nel posto di lavoro di origine, ossia prima dello spostamento. Quando la “qualità” dei colleghi è bassa – ossia inferiore al lavoratore di riferimento (valori negativi dell’asse orizzontale) – la probabilità di muoversi (asse verticale) è maggiore per le donne rispetto agli uomini. Quando la qualità è alta, il differenziale si inverte e la probabilità di spostarsi è maggiore per gli uomini che per le donne.
Nel grafico sulla destra mostriamo l’andamento della stessa probabilità in funzione della qualità dei lavoratori nell’impresa di destinazione, ossia quella in cui il lavoratore o la lavoratrice si spostano. Anche in questo caso, le donne tendono a spostarsi più frequentemente rispetto agli uomini in imprese in cui i colleghi sono “migliori”.

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In altri termini, la decisione di cambiare impresa è collegata non solo al salario che l’impresa paga, ma anche all’ambiente di lavoro che si lascia e che si trova. Le lavoratrici tendono a preferire ambienti di lavoro in cui i colleghi sono mediamente più produttivi. Questa evidenza potrebbe segnalare che le donne danno maggior valore a componenti non monetarie del rapporto di lavoro, oppure che potenzialmente beneficiano di più dall’avere colleghi di elevata qualità rispetto agli uomini. Un’impresa in cui i colleghi sono mediamente più produttivi costituisce, inoltre, un ambiente di lavoro probabilmente più competitivo, verso il quale le lavoratrici sembrano mostrare una preferenza a spostarsi. Questa prima evidenza potrebbe quindi essere coerente anche con una minor avversione delle donne verso ambienti in cui la competizione è maggiore, contrariamente a quanto di solito si sostiene.
Se vogliamo che i differenziali di occupazione e di salario continuino a ridursi, comprendere il legame tra comportamento delle imprese, del lavoratore o lavoratrice e dei loro colleghi è un nodo da sciogliere.

I risultati e le conclusioni raggiunte in questo articolo sono frutto del lavoro degli autori e non coinvolgono in alcun modo l’Istituto nazionale di previdenza sociale.

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  1. Alessandro

    Vorrei porre all’attenzione degli autori il seguente link che rimanda a una recente pubblicazione dell’Eurostat in cui i dati sul gender pay gap differenziano completamente da ciò che è scritto in questo articolo e, anzi, si evince che l’Italia è la seconda migliore nazione della UE in questa specifica statistica. Come mai c’è questa diversità sui dati?

    Il link di cui parlavo è questo: http://ec.europa.eu/eurostat/documents/2995521/8718272/3-07032018-BP-EN.pdf/fb402341-e7fd-42b8-a7cc-4e33587d79aa

  2. Luca Neri

    Sinceramente diffido di coloro che invocano rivoluzioni culturali stimolate dalla politca. In ogni caso, la genitorialità è già ora al centro della discussione nelle famiglie: poichè il tempo è una risorsa limitata, uomini e donne, all’interno della coppia, decidono congiuntamente come utilizzarlo. Siamo sicuri che sempre e in ogni caso sia più efficiente una divisione al 50% dei compiti? E ancora, qual è l’allocazione più efficiente di tempo della famiglia in diversi percentili di reddito/human capital? Questi dati sul gender gap, non tengono affatto conto delle preferenze dei componenti della famiglia. Il dubbio che le donne non siano affatto forzate a guadagnar di meno ma che scelgano un percorso di carriera diverso perchè LEGITTIMAMENTE attribuiscono maggior valore alla cura dei figli, è completamente da scartare? Mi sorprende poi l’auspicio che più aziende offrano flessibilità per consentire alle donne di lavorare. Poichè la flessibilità è un benefit che ha un costo per le aziende, queste lo offrono solo in specifiche condizioni (i.e. elevato capitale umano, elevato costo della formazione, o viceversa possibilità di frazionare il lavoro senza perdita di efficienza, ecc) e normalmente parte del costo viene fatto “pagare” al lavoratore che è disposto a guadagnare un po’ di meno per avere maggior flessibilità, ovvero le donne (per le legittime preferenze di cui sopra).

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