Obbligare Google a vendere Google Shopping avrebbe alcuni vantaggi certi. Ma si apre più di una perplessità. Intanto perché esiste una accesa concorrenza tra i giganti tecnologici. E poi perché gli utenti stessi possono punire i comportamenti scorretti.
La vicenda Google Shopping
“Ritengo che sia importante tenere aperta l’opzione e non cancellarla dalla nostra agenda” (I think it [is] important to keep that question open and on the agenda): è la risposta che, in una recente intervista al Telegraph, il commissario europeo Margareth Vestager ha offerto a chi le chiedeva se Google dovesse essere obbligata a dismettere alcune delle sue attività.
Ora, è difficile commentare l’affermazione senza disporre di ulteriori dettagli. Quello che sappiamo è che nel 2017 Google Search è stata giudicata colpevole di aver favorito Google Shopping in due modi: istruendo il proprio algoritmo con comandi discriminatori e rappresentando i risultati dei rivali in modo a loro sfavorevole.
Ma occorre spezzare Google per porre rimedio a questa duplice infrazione?
Sotto il profilo giuridico no. Nella relativa decisione, la Commissione ha ordinato a Google di porre fine alla manipolazione del suo algoritmo attraverso opportuni comportamenti o misure strutturali. Pertanto, sembra perlomeno prematuro discutere di quello che la Commissione potrebbe fare nell’ipotesi in cui Google non ottemperasse a quanto le è stato richiesto.
Certo si potrebbe sostenere che, se Google Search non avrà difficoltà ad astenersi dall’alterare le istruzioni secondo le quali il motore di ricerca ordina i suoi risultati, troverà invece complesso modificare la sua grafica a vantaggio di Google Shopping. Tuttavia, senza di ulteriori informazioni sul punto, nasce qualche forma di scetticismo rispetto all’eventualità che la vendita forzata di Google Shopping rappresenti l’unica risposta efficace e proporzionata all’illecita maniera secondo la quale il motore di ricerca provvede alla grafica della sua pagina.
Allora, la domanda sulla necessità di spezzare Google potrebbe porsi in termini più generali, ossia prescindendo dalla volontà di rimediare in modo specifico all’illecito contestato alla società statunitense.
Vantaggi e obiezioni alla vendita
Per certo, la vendita forzata di Google Shopping produrrebbe tre chiari vantaggi. In primo luogo, eliminerebbe in radice – ossia, assai meglio di qualsiasi forma di separazione societaria o contabile – l’incentivo di Google Search a favorire Google Shopping. Inoltre, consentirebbe alla Commissione di non dover monitorare (costantemente) il modo in cui Google Search gestisce il proprio algoritmo a favore degli altri servizi Google che vengono da questo indicizzati e organizzati. Infine, servirebbe a comprendere se e quanto Google Shopping riuscirebbe a sopravvivere nel mercato senza contare sul trattamento di favore riservatole da Google Search.
Tuttavia, quella che passerebbe alle cronache come la prima “operazione spezzatino” della storia dell’antitrust europeo non manca di sollecitare almeno tre perplessità.
In primo luogo, si pone una questione di giustizia. È vero che negli Stati Uniti sin dall’introduzione dello Sherman Act le corti federali hanno fatto ricorso al “break-up” in non poche occasioni. Tuttavia, i dati mostrano come solo in tre casi l’obbligo a disinvestire abbia riguardato imprese che avevano visto crescere il loro potere di mercato anche, sebbene non solo, per effetto di comportamenti efficienti e procompetitivi. Assai più spesso, i giudici americani hanno smembrato grandi imprese formatesi a seguito di trust e di operazioni di concentrazione, ossia imprese che dovevano la loro grandezza a forme di crescita meno meritorie di quelle che hanno effettivamente premiato Google e, soprattutto, i suoi utenti.
In aggiunta, e anche di là delle efficienze che la co-proprietà di Google Search e Google Shopping probabilmente produce, occorre constatare come al momento Google, Apple, Amazon e Facebook offrano ai loro clienti un’esperienza sempre più completa, proprio perché fatta di prodotti e servizi tra loro integrati. C’è allora da attendersi che in futuro il problema dei vantaggi convergenti posto dalla relazione Google Search-Google Shopping si presenterà molte altre volte. Ma se gli unici strumenti antitrust atti a gestire la convergenza fossero gli ordini a disinvestire, allora le autorità per la concorrenza, sostituendosi alle imprese nella definizione dei loro sentieri di sviluppo, finirebbero per affermare che gli ecosistemi digitali non devono esistere.
Proprio i fatti che in questi giorni coinvolgono Facebook ricordano non solo che esiste una accesa concorrenza nei mercati tra i giganti tecnologici, ma anche che gli utenti Internet non sono quei soggetti obnubilati di cui si parlava: al contrario, sono agenti del tutto capaci di decidere se e quando abbandonare i servizi digitali offerti da uno di quei giganti.Certo, il fatto che anche i concorrenti e gli utenti di Google potrebbero punirlo per la manipolazione del suo algoritmo non esclude la necessità dell’intervento antitrust. Tuttavia, questa circostanza rende meno cogente l’esigenza di procedere con lo smembramento della società e invita a riflettere sui rimedi che potrebbero effettivamente tenere a bada questi giganti dai piedi di argilla.
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