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Caso Uber: il ruolo dei giudici e quello della politica

L’ordinanza del Tribunale di Roma che, prima della sospensiva, ha fermato Uber in Italia si fonda su leggi vigenti. Perché compito della magistratura è farle rispettare. Mentre è compito della politica modificarle, quando fenomeni e interessi cambiano.

Tribunale di Roma contro Uber

Se non fosse intervenuta la sospensiva, dal 6 aprile Uber non potrebbe più utilizzare l’app UberBlack (e altre analoghe) per offrire il proprio servizio di trasporto su tutto il territorio nazionale. Il Tribunale di Roma ha infatti stabilito che la sua attività di impresa è illecita, poiché costituisce una forma di concorrenza sleale ai sensi dell’articolo 2598 del codice civile. Pur agendo in sede cautelare, il giudice capitolino ha deciso che, poiché non conforme alle norme pubblicistiche che disciplinano il “servizio di trasporto pubblico non di linea”, l’attività di Uber non solo è contraria ai principi della correttezza professionale, ma è altresì idonea a danneggiare gli affari di coloro che offrono il servizio nel rispetto della normativa vigente.
Chi – come chi scrive – sostiene la liberalizzazione del mercato dei servizi di trasporto offerti con autovetture private non può certo accogliere di buon grado la decisione. Tuttavia, non è semplice criticare l’ordinanza del 6 aprile, la quale si segnala invece per tre meriti.

I tre meriti dell’ordinanza

In primo luogo, la pronuncia afferma un principio per nulla eterodosso rispetto alla dottrina e alla giurisprudenza nazionali: se esistono delle norme pubblicistiche che impongono limiti all’esercizio di una determinata attività di impresa e che, di conseguenza, stabiliscono a quali condizioni gli agenti economici possono entrare in un mercato e operarvi, queste norme devono essere rispettate da tutti.
Certo, si potrebbe provare ad argomentare che l’attività di Uber non sia riconducibile alla categoria del “servizio di trasporto pubblico non di linea”. Tuttavia – ed è qui che si colloca il secondo merito della pronuncia – l’obiezione sarebbe di carattere formale. Giustamente, il Tribunale constata come, tramite l’app UberBlack, quelle che dovrebbero essere auto a noleggio con conducente chiamate a fare capo alla loro rimessa registrata, finiscano invece per intercettare l’utenza indifferenziata mentre circolano o sostano sulla pubblica via. L’ordinanza sceglie cioè di confrontarsi con la realtà di mercato, spiegando come il servizio di Uber sia in concreto fungibile con quello offerto dai taxi e dalle auto a noleggio con conducente.
In terzo luogo, il Tribunale rievoca il principio della separazione dei poteri, quando scrive che compito di un giudice “non è quello di valutare l’efficienza della normativa vigente (…) ovvero la [sua] migliorabilità (…) ma di valutare la fondatezza o meno delle contestazioni oggetto del ricorso alla luce della legislazione attualmente in vigore”. E questa affermazione pare meritoria perché ricorda come negli anni la classe politica, preda delle tante categorie e corporazioni che caratterizzano il tessuto sociale italiano, non abbia capito come il cambiamento verso un contesto deregolamentato non dovesse essere negato o negletto, ma guidato e gestito per renderlo forse meno traumatico per alcuni, ma certamente per offrire a tutti i consumatori l’opportunità di cogliere i guadagni di efficienza che la tecnologia produce.
Insomma, nel reagire all’ordinanza del Tribunale di Roma non bisognerebbe dimenticare che le norme di legge servono a disciplinare fenomeni contemperando interessi confliggenti. Compito della magistratura è far rispettare quelle norme; compito della comunità politica è modificarle in rapporto ai mutati fenomeni e interessi. Esistono circostanze in cui anche il potere giudiziario può sollecitare e dare avvio a un cambiamento legislativo. Per questo andrebbe meglio esplorata l’ipotesi che la regolamentazione nazionale sia contraria alle norme del Trattato europeo – cosa che il Tribunale di Roma non fa in modo compiuto. Tuttavia, affidarsi a questa via “eccezionale” è sintomo di una comunità politica incapace di pensare il suo futuro. Un futuro che potrebbe imporsi in modo ancor più dirompente con le auto senza conducente di Tesla.

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  1. Giuseppe Spadaro

    Mi sembra un’analisi – forse a causa dell’eccesso di sintesi – sorprendentemente priva di prospettiva giuridica. Provo a contrapporre un percorso altrettanto schematico.
    1) L’ordinamento non è ‘piatto’ (=tutte le norme hanno pari valore e vanno parimenti applicate), ma ordinato gerarchicamente (=si possono porre – e vanno gestiti – problemi di conflitto tra norme).
    2) Stante il primato del diritto comunitario – improntato a principi di libera concorrenza – compito preciso del giudice è valutare la compatibilità delle famose “norme pubblicistiche che impongono limiti all’esercizio di una determinata attività di impresa” con i principi comunitari, disponendo in caso di rilevato contrasto dei noti rimedi (disapplicazione, rinvio pregiudiziale, etc.)
    3) Discorso analogo potrebbe (dovrebbe) farsi, pur con i dovuti adattamenti e distinguo, per quanto riguarda il diritto nazionale, con riferimento al parametro costituzionale della libertà di concorrenza (artt. 41 e 117 Cost.).
    4) La separazione dei poteri non ha nulla a che vedere con tutto questo.

    • Marcos Ferrari

      La concorrenza degli altri

      L’articolo è evidentemente influenzato da una precisa visione ideologico-economica.

      Il fatto stesso che l’autore si qualifichi come “associate professor”, pur lavorando in un‘università nostrana (perché non professore associato?), la dice lunga sull’impostazione iperliberista delle tesi sostenute.

      Inoltre il potere giudiziario non può “sollecitare e dare avvio a un cambiamento legislativo”, ma, semplicemente, deve presentare alle corti europee un rinvio pregiudiziale per sollecitare l’applicazione di norme di rango superiore. E tutto questo non è certamente un fatto “eccezionale”, ma il frutto di una normale dinamica nei rapporti tra Stati Membri e Unione.

      In breve la legge non deve cambiare perché qualcuno ritiene che gli interessi siano cambiati o perché lo “chiedono” i giudici, ma cambia quando una maggioranza parlamentare (in cui sono espressi gli interessi di tutti) così decide. Questa è la democrazia.

      E’ molto facile parlare di concorrenza da un pulpito come quello accademico in cui questa non c’è e un vero mercato non esiste. Non mi sembra neppure che il “mercato” italiano dei professori sia ispirato ai principi della concorrenza perfetta. Forse sarebbe bene iniziare a esaminare e criticare i mercati che si conoscono meglio e in cui si opera prima di perorare la concorrenza degli altri.

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