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Assalto al trono di Netflix: ci provano anche le tv

Il settore televisivo, da sempre preminente in Europa, è il più penalizzato dalla rivoluzione dei video on demand. Potrebbe però riguadagnare posizioni puntando sulle produzioni originali e locali. Anche la regolazione avrà un ruolo nei futuri sviluppi. 

Si completa il passaggio al digitale

Il consolidamento nel settore dei media, che negli ultimi mesi ha assunto dimensioni senza precedenti, è una conseguenza del fatto che televisione e cinema sono al centro di uno dei più grandi processi di ristrutturazione e trasformazione della storia. Musica, radio, editoria hanno già sperimentato in maniera certamente non indolore il cambiamento epocale, oggi con il video si completa il passaggio al digitale dell’intera industria dell’intrattenimento.

Le dinamiche sono per certi versi le stesse, ma ancor più accentuate da un settore molto più esigente in termini di qualità dei servizi, che richiedono ubiquità della connessione, adozione della banda larga e ultra larga, accesso ai contenuti da diversi apparati e dunque velocità e affidabilità sia su connessioni mobili che fisse. Tutto ciò ha favorito, prima negli Usa e poi in Europa e nel resto del mondo, l’esplosione dei servizi in streaming (video-on-demand). È su questo terreno che oggi tutti competono, da Netflix, che ne è stato il precursore, alle major (Disney, Warner, Universal, 20th Century Fox), ai broadcaster (Sky, Nbc, Direct Tv, Espn, Fox Tv), alle grandi società via cavo e telefoniche (Comcast, At&t) fino ai giganti di Internet come Amazon e Apple.

La “torta”, almeno nei prossimi anni, dovrebbe assumere dimensioni sempre più rilevanti, anche per la sostituzione con una parte sempre più ampia dei ricavi dell’industria televisiva, derivante dai tradizionali servizi media audiovisivi, il cosiddetto broadcasting.

Le strategie europee e il ruolo dei broadcaster

Il settore televisivo, da sempre preminente in Europa, ha continuato finora a operare su modelli di business consolidati ed è oggi quello maggiormente penalizzato. La crescita nel mondo digitale si dirige esclusivamente sui nuovi business e sui ricavi dei nuovi entranti e mostra chiaramente come questi soggetti siano in grado di sfruttare meglio le opportunità offerte dall’evoluzione tecnologica e dalle mutate esigenze della domanda. In definitiva, il quadro che emerge è che gli spettatori europei, italiani inclusi, vogliono sempre più contenuti video di intrattenimento e i produttori dei contenuti vogliono distribuirli sul maggior numero di piattaforme e di schermi possibili, scavalcando i media (e dunque i broadcaster) per distribuire il loro prodotto direttamente al pubblico, al consumatore.

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Quali sono, dunque, le strategie possibili?

La prima riguarda il vantaggio competitivo che la dimensione locale (nazionale) dell’offerta d’intrattenimento ancora mantiene rispetto a quella “globale”. Le produzioni originali, locali (L’ispettore Montalbano, per citare l’esempio più eclatante), oltre a quelle dal vivo – come lo sport – rimangono le più seguite e apprezzate dai consumatori. Investire maggiormente in queste produzioni è dunque il modo più efficace e intelligente per competere e per fidelizzare il proprio pubblico, sempre meno vincolato alla logica dell’appuntamento e del palinsesto e, al contrario, più mobile, flessibile e dunque attratto soprattutto da chi sa offrire i prodotti migliori in termini di qualità, sia a livello tecnico (alta definizione, 4k) che culturale, nel rispetto delle identità e peculiarità nazionali.

La seconda attiene al consolidamento, tramite integrazione e alleanze strategiche delle tv nazionali tra loro e con i diversi attori del settore. Alla fine, si affermeranno probabilmente non più di tre-quattro operatori globali e le grandi manovre a livello “regionale” sono già cominciate. Così Netflix stringe alleanze con alcuni broadcaster e produttori di contenuti (vedi Rai), come pure con società di produzioni nazionali e telcos europee, promettendo investimenti in produzione per centinaia di milioni di euro. La stessa Sky ha di recente sottoscritto un accordo con Netflix per inserirla nella propria offerta Sky Q. La stessa strategia coinvolge Amazon e Apple con televisioni e produttori europei, ed è presumibile che anche i nuovi entranti, frutto delle recenti fusioni, svilupperanno analoghe strategie a livello europeo.

Allo stesso tempo, le grandi televisioni europee si uniscono sia a livello nazionale (Bbc, Itv con Britbox nel Regno Unito e Tf1, France Television e M6 con Salto in Francia) che continentale (Rai con Tf1 e Zdf nella produzione, Mediaset con Sat1 e Tf1 nella pubblicità) per formare alleanze che rafforzino l’attrattività del prodotto nazionale di cui sono i maggiori produttori e titolari dei diritti. Aumentano così sensibilmente gli investimenti in produzioni europee e nazionali e cambiano anche i formati (durata) e l’utilizzo di star internazionali per renderli più appetibili a un pubblico trans-nazionale.

Se per alcuni aspetti la strategia ricalca l’idea del campione nazionale – a nostro avviso non più proponibile ed economicamente insostenibile (vedi il caso della “Netflix italiana”) – fa leva, d’altro canto, su una caratteristica che distingue questi servizi da quelli tradizionali: la molteplicità degli abbonamenti, possibile sia per il basso prezzo d’ingresso che per la facilità di passaggio da un operatore all’altro, fa sì che nei paesi dove il video streaming è maggiormente sviluppato convivano almeno tre operatori in concorrenza. In altri termini, se nella pay tv c’era posto per un solo operatore, qui possono convivere più soggetti e uno di questi potrebbe essere proprio quello più legato alla dimensione e cultura locale.

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La terza strategia riguarda il ruolo della regolazione. Nei prossimi mesi i paesi dell’UE, Italia compresa, saranno chiamati a recepire alcune direttive recentemente approvate nell’ambito del progetto del Mercato unico digitale, come il copyright e i servizi media audiovisivi. Quest’ultima direttiva in particolare estende anche ai servizi non lineari gli obblighi previsti per i tradizionali servizi televisivi, tra cui, anche se in misura leggermente minore, il regime delle quote di produzione europea (30 per cento del totale dell’offerta). Se da un lato intende favorire la circolazione delle opere europee, dall’altro, potrebbe avere un impatto anche sulle strategie degli operatori stranieri come Netflix (a cui in Italia dovrebbero aggiungersi anche gli investimenti diretti in produzione), al di fuori di quelle che sono le pure dinamiche di mercato.

Il dubbio è se queste misure facciano riferimento a principi, non solo economici, legati alla cosiddetta eccezione culturale dell’audiovisivo oppure se, come sembra emergere anche da recenti prese di posizione in tema di economia digitale e big data, non si stia affermando a livello europeo e di singoli stati nazionali l’idea di fare politica industriale utilizzando lo strumento della regolazione, per cercare di recuperare il divario nei confronti di attori ed economie più sviluppati. La conclusione che già fin d’ora si può anticipare è che senza investimenti, competenze e strategie adeguate, qualunque strumento di politica industriale si voglia adottare risulterà velleitario e destinato inevitabilmente all’insuccesso.

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  1. Analisi lucida e condivisibile. Da giornalista mi sembra palesemente vero quanto letto in questo articolo, ma gli editori stentano a capire che il mondo della comunicazione in pochi anni è cambiato radicalmente, e restano arroccati sulle loro stantie politiche editoriali e commerciali. Magari non è così per le grandi reti televisive, dove ci sono molti cervelli. Ma le grosse case editrici padronali sono in declino spesso perché non hanno capito cosa è successo intorno a loro

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