Politiche fiscali espansive possono ridurre il favore che le forze populiste raccolgono nel mondo occidentale? Sì secondo i risultati di una ricerca che ha studiato l’effetto dei fondi europei di coesione territoriale sulle elezioni italiane del 2013.
Politiche fiscali contro il populismo?
Negli ultimi anni in molti paesi occidentali, incluso il nostro, si è assistito a una forte crescita del consenso verso istanze anti-establishment, che ha determinato avvenimenti epocali come, per esempio, il voto pro-Brexit. Al di là delle facili semplificazioni, questi comportamenti elettorali vanno compresi nelle loro motivazioni. Tra queste, quelle economiche svolgono senz’altro un ruolo importante.
Diversi studi hanno infatti messo in luce come il voto anti-sistema sia essenzialmente la risposta data nel segreto dell’urna da cittadini impauriti da una crescente insicurezza sulle loro condizioni economiche, attuali e in prospettiva. Anche lavoce.info si è occupata del legame tra condizioni macroeconomiche e comportamenti elettorali e ha ospitato il recente e importante contributo di Raghuram Rajan sull’argomento.
L’insicurezza è reale, anche senza considerare l’eco che i mezzi di comunicazione le tributano. Nell’ultimo ventennio l’Occidente è stato scosso da due fenomeni dirompenti: l’apertura del commercio internazionale ai paesi a basso costo del lavoro e la rivoluzione delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Non c’è dubbio sui benefici aggregati delle due rivoluzioni sulle economie occidentali, tuttavia i costi che hanno comportato non si sono distribuiti in misura uniforme tra individui e tra territori.
Si discute molto se utilizzare la leva fiscale per controbilanciare, almeno in parte, le difficoltà economiche sottese alle istanze anti-establishment. Un recente sondaggio dell’università di Chicago ha chiesto ai principali economisti sulle due sponde dell’Atlantico un parere sulla capacità delle politiche fiscali espansive di rispondere alle istanze populiste e sull’opportunità di adottarle, anche toccando gli equilibri di finanza pubblica. La maggior parte degli intervistati ha risposto sì in entrambi i casi. Anche Christine Lagarde, prossimo presidente della Banca centrale europea, ha espresso un concetto simile a margine di una recente audizione al Parlamento europeo, precisando che nell’ambito dell’area dell’euro l’iniziativa espansiva dovrebbe essere riservata ai soli paesi con una situazione di finanza pubblica solida.
Fondi europei e scelte di voto
Un nostro recente lavoro offre evidenza empirica a sostegno del ruolo delle politiche fiscali come risposta alle istanze anti-establishment. Abbiamo studiato l’effetto delle politiche europee di coesione territoriale sulle elezioni politiche italiane del 2013, focalizzandoci su alcuni comuni del Centro-Sud Italia. Alcuni di questi (localizzati in Campania e in Puglia) facevano parte del cosiddetto “Obiettivo convergenza” e, come tali, ricevevano un ammontare di fondi europei non trascurabile (circa 125 euro pro capite in media all’anno nel quinquennio precedente le elezioni). Per altri comuni (nel Molise e nel Lazio), l’ammontare dei fondi era sensibilmente inferiore (sono i fondi dell’“Obiettivo competitività”, in media 30 euro pro capite). La figura 1 mostra, a sinistra, che a sud del confine i fondi Ue sono stati più corposi. La stessa figura, a destra, mostra la distribuzione del voto anti-establishment. Questo è costruito seguendo il lavoro di due autorevoli politologi ed è calcolato come quota di voti di protesta rispetto al numero totale di voti. La figura mostra chiaramente che il voto anti-sistema nei comuni “Obiettivo convergenza” è stato sensibilmente più basso. L’evidenza è suffragata da un esercizio statistico più rigoroso (spatial regression discontinuity design), che restringe il confronto ai comuni molto vicini alla soglia geografica e per questo più simili tra loro per molte altre caratteristiche (sociali, economiche, demografiche): in questo caso, è dunque molto ragionevole attribuire la differenza nel comportamento elettorale alla differente ricezione di fondi. Più in dettaglio, in corrispondenza del passaggio nell’area del paese interessata dall’”Obiettivo convergenza”, si osserva una caduta significativa del voto anti-establishment, che scende del 5 per cento rispetto al suo valore medio.
Figura 1
Nel lavoro mostriamo anche che i fondi europei fanno scendere il numero assoluto dei voti anti-establishment, senza che peraltro salga il sostegno ai partiti più tradizionali. Diminuisce infatti la partecipazione elettorale: con maggiori fondi ricevuti, alcuni cittadini non manifestano pienamente il loro disagio con un voto, ma semplicemente si astengono.
Emerge infine che la destinazione dei fondi – per opere pubbliche, per trasferimenti a famiglie e imprese, per acquisto di beni e servizi – non è rilevante per il risultato finale: evidentemente sono tutte forme che, pur transitando da canali diversi, contribuiscono ugualmente a stemperare le difficoltà economiche degli elettori.
La corretta interpretazione dei nostri risultati richiede tuttavia una nota di cautela. Innanzitutto, i trasferimenti che noi consideriamo sono quelli legati alla politica di coesione europea. Non siamo in grado di dire se eventuali politiche redistributive finanziate dal governo nazionale possano avere gli stessi esiti. In paesi con elevato debito pubblico, poi, una maggiore redistribuzione che non tenesse conto dei vincoli di finanza pubblica potrebbe avere effetti controproducenti sulle istanze anti-establishment, che in caso di difficoltà macroeconomiche riceverebbero ulteriore linfa.
* Le opinioni espresse sono quelle degli autori e non possono in alcun modo essere riferite alle istituzioni
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Pasinato Giovanni
Interessante, ma da prendere con le pinze. Anche dopo il voto in Umbria….
Henri Schmit
I dati dell’analisi, la correlazione, sono davvero impressionanti. Penso però che l’errore italiano (dei governi e dell’opinione) sia proprio quello di aver interpretato l’UE come un fonte di fondi invece di aver compreso 30 anni fa o al più tardi con l’euro e l’allargamento (quasi simultanei) che un paese ormai contributore netto deve rendere la propria economia competitiva nell’UE e nel mondo, cosa recepita e implementata da quasi tutti gli altri paesi membri, dall’Irlanda al Portogallo, dalla Lettonia alla Slovacchia. Per queste ragioni l’euro-scetticismo italiano è diverso da quello diciamo britannico o polacco, ungherese.