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Istruzioni per capire il voto del Regno Unito

Si avvicinano le elezioni nel Regno Unito. Per una volta, parlare di scelta epocale non è un’iperbole. Una maggioranza per Boris Johnson significa l’approvazione dell’accordo raggiunto con la Ue. In caso contrario si andrà a un secondo referendum.

Regole elettorali

Il 12 dicembre il Regno Unito va alle urne. Il paese è diviso in 650 collegi, simili in popolazione. In ognuno è eletto il candidato che ottiene più voti.

I seggi si chiudono alle 22, e la notte elettorale in televisione comincia subito dopo con l’annuncio dell’exit poll, che riporta non la percentuale di voti, ma il numero di deputati previsti. Dato il meccanismo elettorale inglese, un maggioritario puro, la relazione fra le percentuale di voti e di seggi, è molto vaga. Tende a penalizzare i partiti con proporzioni di consensi costante sul territorio nazionale, come i Liberal-democratici e Ukip/Brexit party, e a premiare quelli con elettorato concentrato geograficamente, come nel caso estremo dei nazionalisti scozzesi.

Due concetti essenziali per capire i commenti della notte elettorale sono swing (cambio) e collegi marginali. Lo swing è la variazione percentuale di voti da un partito a un altro che cambierebbe il vincitore del collegio: per esempio, se nel suo collegio di Uxbridge ci fosse uno swing verso i laburisti del 5,5 per cento, cioè se il 5,5 per cento degli elettori votassero Labour invece che Tory, Boris Johnson non sarebbe rieletto.

Un collegio marginale è uno che cambierebbe partito con un piccolo swing, né mancano collegi marginali tripli, in cui tre partiti sono vicini alla maggioranza, e talvolta anche quadrupli.

Con la chiusura del Parlamento e la collusione dei due partiti a non parlare di Brexit, i temi della campagna tornano a essere quelli tradizionali. I laburisti preferiscono incolpare l’austerità tory per il peggioramento della situazione economica più che l’incertezza dovuta alla Brexit.

Paradossalmente, ma non troppo, Boris Johnson fa lo stesso, e promette un roseo futuro post-Brexit, lontano dalle politiche di David Cameron e Theresa May: libero dai vincoli di Bruxelles, il Regno Unito potrà seguire una politica fiscale radicalmente diversa dai suoi due predecessori. Entrambi i partiti promettono uno spendi-e-spandi scatenato e le voci della ragione costituite dai disprezzati esperti nei centri studi diventano sussurri impercettibili nel baccano assordante delle accuse di menzogne e di false promesse, e di comunismo rampante e selvagge nazionalizzazioni.

I sondaggi di opinione

Per ora i sondaggi vedono i Tory saldamente al comando, ben oltre il 40 per cento, seguiti a distanza dal Labour attorno al 30 per cento, con una perdita di un quarto dei consensi rispetto a due anni fa. La stinfia campagna dei Lib-dem li vede languire a un distante 15 per cento e il partito di Nigel Farage sembra ormai un pallone sgonfiato.

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Ci sono però due motivi per cui questi sondaggi vanno presi con le pinze. In primo luogo, potrebbero rivelarsi errati: due anni fa il vantaggio dei Tory evaporò dal 20 a uno striminzito 4 per cento. Non penso che ciò si ripeterà, sia perché la cotta degli elettori per Jeremy Corbyn è ormai passata, e il suo tono assopito dà ora più la sensazione di indecisione che di saggezza, sia perché l’indubbio carisma di Johnson è lontano anni luce dalla legnosa immagine e dagli errori marchiani di Theresa May, che un giorno spiegò saccente a un’infermiera che i soldi non crescono sugli alberi, un altro propose una riforma della tutela degli anziani che il pubblico poté chiamare “tassa sulla demenza”. Oltretutto Johnson evita il pubblico: rifiuta di farsi intervistare dal mastino ringhioso Andrew Neil, che di recente ha umiliato Corbyn, e di partecipare al dibattito televisivo dei partiti sul riscaldamento globale (salvo poi minacciare di chiusura Channel 4 che lo sostituisce con una scultura di ghiaccio in scioglimento).

Il secondo motivo per cui i sondaggi potrebbero non predire la maggioranza a Westminster è che quest’elezione è diversa: moltissimi seggi sono marginali e bastano pochi elettori che scelgono di votare non in base a tradizionali fedeltà partitiche, ma sulla base di ciò che pensano della Brexit, per creare uno swing sufficiente per la perdita di un seggio. E le preferenze per Brexit sono radicalmente diverse da quelle elettorali tradizionali.

Nella storia recente, lo swing è uniforme: Margaret Thatcher riuscì a portare ai Tory molti elettori stanchi del potere dei sindacati e Tony Blair convinse i “galaxy men”, padri di famiglia che potevano permettersi la vacanza in Francia e la monovolume della Ford. Questi “swing voter” erano distribuiti in modo abbastanza uniforme e tradurre uno swing uniforme in numero di collegi che cambiano partito è elementare con lo swingometro: basta ordinare i collegi per maggioranza e contare quelli che cambiano colore a seconda dello swing.

Quest’elezione, invece, non sarà una battaglia nazionale, ma 650 battaglie locali, combattute in ogni seggio su temi diversi. I candidati, che ancora vanno di porta in porta per convincere un elettore alla volta, cambiano messaggio a seconda di dove si trovano: a Londra gli elettori tendono a essere pro-Ue e quasi il 40 per cento dei residenti è nato all’estero, quindi i candidati evitano di parlare di Brexit e immigrazione. Nella parte centrale del paese, invece, i Tory preferiscono parlare di Brexit e il Labour delle politiche economiche dei Tory e dei danni che hanno arrecato ai ceti medio-bassi.

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I patti tattici, espliciti o taciti, rendono i sondaggi ancor più confusi: se è vero che il partito Brexit langue al 4 per cento, questa percentuale è però concentrata in circa metà dei collegi. Farage ha infatti deciso di non presentare candidati nei seggi il cui deputato è Tory. Se ciò facilita la difesa dei seggi che già hanno, la presenza di un candidato Brexit obbliga i tory a combattere su tre fronti in quelli che devono conquistare: convincere gli elettori Labour a dimenticare decenni di astio e votare Tory, gli europeisti Tory a non votare Lib-dem e i brexitisti duri e puri a non votare il Brexit party. E Johnson deve strappare almeno 40-50 seggi alle opposizioni: oltre ai 10-15 seggi che gli mancano ora per la maggioranza, il primo ministro dovrà compensare la possibile perdita di 15-20 seggi in Scozia a Londra e nel Sud-Ovest. Intanto, i Verdi, i Lib-dem e i nazionalisti gallesi hanno deciso, in un patto formale, di lasciar via libera al meglio piazzato dei tre in 60 collegi, rendendo così più agevole la difesa di quelli cha già hanno e in una notte di successo potrebbero anche spartirsene una ventina in più.

Tabella 1 – Prospettive dei sondaggi settimanali *

* L’algoritmo di Electoral Calculus è aggiornato giornalmente. Le prime due colonne sono le mie previsioni soggettive.

Figura 1 – Aggregazione dei sondaggi settimanali: partendo dall’alto i partiti sono Conservative, Labour, Liberal-democratici, il partito Brexit, i Verdi.

Fonte: BritainElect.

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Il Punto

  1. Carlo

    Il sistema elettorale britannico è in grado di trasformare il 55% dei voti nel 90% dei seggi. Non è un esempio teorico, ma è quanto accaduto (punto più, punto meno), in Scozia due elezioni fa, dove lo Scottish National party ottenne circa il 90% dei seggi scozzesi con poco più della metà dei voti. Per me questa è una scandalosa aberrazione, ma ai britannici va bene così.

    Il sistema del voto alternativo, come in Australia, è molto più equo e sensato, ma ovviamente i partiti grandi non lo vogliono: https://www.youtube.com/watch?v=wA3_t-08Vr0

    • Henri Schmit

      Non concordo. Le elezioni politiche servono per eleggere i componenti individuali dell’assemblea parlamentare, non per eleggere partiti, né per eleggere e nemmeno per indicare chi deve formare il governo. Questa è un’idea aberrante, tipicamente italiana (Berlusconi, Renzi), ma ormai molto diffusa anche altrove. Il sistema britannico, molto severo, è una vantaggio ora che l’opinione non sa più quale via seguire per colpa di un’offerta poco convincente. Johnson vincerà (secondo le previsioni del Guardian che sicuramente preferirebbe un risultato diverso) per questa ragione, perché non c’è un’offerta coesa e convincente di un partito remain. I LibDem non sono riusciti ad attrarre l’ala remain dei Tories né ad allearsi con l’ala remain del Labour. L’uninominale in numerosi collegi ritagliati correttamente (come in UK) ha il grande vantaggio di premiare i candidati mediani. È colpa della dirigenza Labour e LibDem di non aver saputo profilarsi, nonostante una maggioranza nel paese contraria al programma di Johnson, come la soluzione preferita nel maggior numero di costituencies. Questo si chiama incapacità, non vizio di sistema. Il vizio di sistema – oltre che di uomini – sta tutto da questa parte delle Alpi.

      • Carlo

        Faccio davvero molta fatica a capire cosa ci sarebbe di aberrante nel volere un sistema elettorale che rappresenti le effettive preferenze degli elettori senza distorcerle troppo, e faccio ancora più fatica a capire come non si possa considerare un’aberrazione il caso scozzese del 90% dei seggi col 55% delle preferenze (o giù di lì). Me lo spiega?
        Cosa vuol dire collegi ritagliati correttamente? Una delle grandi aberrazioni del maggioritario è di essere molto sensibile a come sono definite le circoscrizioni, perché spostare di poco i confini può produrre risultati molto di versi. È il cosiddetto “gerrymandering”. https://en.wikipedia.org/wiki/Gerrymandering , che non è altro che un esempio di quello che in statistica si chiama paradosso di Simpson.
        Quali sarebbero i vantaggi del maggioritario inglese? Maggiore stabilità? Non sempre e non garantito: vedi i risultati delle ultime elezioni. Tenere a bada gli estremismi? Se così fosse, il partito Conservatore non sarebbe diventato la patria del più becero nazionalismo inglese, e quello Laburista non sarebbe sotto il comando di un gruppo di vetero-marxisti convinti di vivere ancora negli anni ’70.
        Se proprio si preferisce un maggioritario, che almeno si opti per il sistema del voto alternativo come in Australia, che distorce molto di meno le preferenze, e consente di evitare l’amletico dubbio se il voto per il partito preferito sia un voto sprecato (facilmente una profezia che si auto-avvera).

  2. Gianni De Fraja

    Il maggioritario del Regno Unito, pur essendo teoricamente aberrante, ha per decenni servito la nazione bene, riflettendo nel complesso le preferenze politiche dell’elettorato, compresa la forte preferenza per partiti “uniti”. In genere, con il 40% dei voti si ottiene una maggioranza e che in 45% una solida maggioranza. Paradossalmente le elezioni del 2017 erano in controtendenza, negando la maggioranza al partito con il 42.4% dei voti. Va anche tenuto presente che il voto non è indipendente dal sistema elettorale: oltre al voto tattico, c’è molta gente che non va a votare quando il risultato è ovvio (David Lammy a Tottenham ha l’82% dei voti). Soprattutto se piove.
    L’esempio che fa Carlo per la Scozia è vero, ma non per le elezioni del parlamento scozzese, ma per un sottoinsieme del parlamento nazionale. In Scozia, proprio per evitare situazioni aberranti, una quota dei MSP sono eletti con un proporzionale.
    In pratica, quindi, data la geografia elettorale storicamente presente nel Regno Unito, direi che il sistema fino ad oggi ha funzionato abbastanza bene. Le aberrazioni sono geograficamente concentrate (Scozia: 56 seggi con meno del 5% dei voti) e di breve periodo (UKIP, 1 seggio con il 13% dei voti).
    C’è anche da dire che nel 2011, ci fu un referendum per l’introduzione del metodo AV (che è senz’altro meglio del maggioritario attuale, e ha il vantaggio di mantenere il rapporto individuale tra elettori e il “loro” MP), ma venne respinto da più del 2/3 dei votanti.

    • Carlo

      “Ingegneria costituzionale comparata” di Sartori, se ricordo bene tradotto anche in inglese, rimane un classico che spiega in maniera esemplare i pro e i contro dei vari sistemi elettorali e di governo.

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