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Quote di genere, aritmetica permettendo

La legge di bilancio 2020 aumenta la quota riservata al genere meno rappresentato da un terzo a due quinti degli organi di amministrazione e controllo delle società quotate. Peccato che per i collegi sindacali la norma sia aritmeticamente inapplicabile.

Più donne nei consigli di amministrazione

La legge Golfo-Mosca, nel 2011, introdusse le quote di genere, prevedendo l’obbligo che almeno un terzo dei consiglieri di amministrazione e dei sindaci delle società quotate appartenessero al genere meno rappresentato (leggi, ovviamente, donne). La legge aveva una “data di scadenza” (le chiamano “sunset clauses”): originariamente l’obbligo avrebbe dovuto sussistere solo per tre mandati, ossia, essenzialmente, nove anni. L’idea era che ciò fosse sufficiente per infrangere il “soffitto di vetro”, radicare una cultura più aperta e inclusiva e consentire lo sviluppo e la valorizzazione di adeguate professionalità. Dopo quel termine, ossia a partire all’incirca dal 2020, si riteneva che l’autodisciplina e le buone prassi sarebbero state sufficienti.

Nella legge di bilancio 2020, tuttavia, il legislatore ha voluto estendere l’obbligo per ben sei ulteriori mandati (potenzialmente, 18 anni) e, soprattutto, aumentare la quota riservata al genere meno rappresentato da un terzo a due quinti degli organi di amministrazione e controllo.

Gli effetti delle norme del 2011 sono stati notevoli: oggi l’Italia, sotto questo profilo, è certamente tra i paesi con la maggiore diversità di genere ai vertici delle società quotate, sebbene le donne siano prevalentemente amministratrici non esecutive e indipendenti e più raramente siedano sulla poltrona di amministratore delegato o presidente.

I giudizi sulle quote rosa sono però discordanti. Accanto a chi (e chi scrive è tra questi: vedi qui) ritiene le quote di genere utili per vincere l’inerzia e allineare il nostro ordinamento alle migliori prassi e più in generale favorire il rinnovamento e arricchire gli organi con nuovi profili professionali, non poche sono le voci critiche. Come in molti casi di simili iniziative, contrarie sono naturalmente anche alcune donne che non desiderano appartenere a una classe protetta per legge. È vero che alcuni studi empirici suggeriscono un impatto positivo della diversità sul piano dei risultati aziendali o della compliance, ma in molti casi è difficile dire se la correlazione implica causalità, ossia se le società con più donne sono più virtuose oppure se le società più virtuose sono più attente a queste istanze sociali. Qualche ricerca più recente, condotta con tecniche statistiche più raffinate, giunge a individuare anche un rapporto di causa-effetto tra diversità di genere e risultati dell’attività (in senso lato), ma come è intuibile la questione è tuttora controversa.

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Lo svarione aritmetico

Non voglio però qui discutere del giudizio complessivo sulla legge e la sua estensione e irrigidimento, ma piuttosto segnalare un clamoroso errore di calcolo del legislatore che, forse, la Consob potrebbe mitigare in sede di emanazione dei regolamenti di sua competenza.

Si tratta di un profilo tecnico che tuttavia evidenzia, quantomeno, una preoccupante trasandatezza del legislatore, risultando in un buffo paradosso. Per il collegio sindacale, con un mero copia e incolla della disposizione prevista per gli amministratori, il nuovo comma 1-bis dell’articolo 148 del Testo unico della finanza impone che, appunto, almeno due quinti dei sindaci appartengano al “genere meno rappresentato”. Peccato che il collegio sindacale, come sa ogni studente di giurisprudenza o economia, è un organo “semi-rigido”, che a seconda delle scelte statutarie può contare tre o cinque membri (la stragrande maggioranza delle quotate opta per tre). Ebbene, due quinti di 3 è uguale a 1,2; il che significa che per rispettare la legge, salvo eleggere frazioni di amministratori con cruente amputazioni, almeno due sindaci dovrebbero essere donne. Ma se vi sono due donne e un uomo, gli uomini diventano il genere meno rappresentato, e quindi servirebbero due uomini; e così via in un circolo vizioso irrisolvibile. La norma, insomma, è inapplicabile. Né ci parrebbe corretto interpretarla nel senso che imponga collegi sindacali di cinque membri: una soluzione che sarebbe fortemente illiberale, che non pare nelle intenzioni della legge e che implicherebbe costi ingiusti soprattutto per gli emittenti meno grandi. Consob potrebbe e dovrebbe al più presto chiarire che, in caso di organi formati da tre persone, è ammissibile un arrotondamento al ribasso, e quindi basta che un sindaco su tre sia di genere diverso dagli altri due.

Al di là dallo svarione aritmetico, che comunque è esemplificativo di come sono fatte molte leggi, segnaliamo la cosa anche per un’altra, più ampia e profonda, ragione. Troppo spesso, nel settore del governo societario ma anche in altre branche del diritto dell’economia e non solo, l’evoluzione normativa è guidata da una logica perversa. I politici di turno, più o meno spinti da buone intenzioni, sentono l’esigenza di “fare qualcosa”, di lasciare un segno. Nel farlo, soprattutto su tematiche che paiono avere una certa risonanza sociale ed elettorale, si cerca allora sempre di rilanciare, di alzare l’asticella. Il caso delle quote è emblematico: imporre un terzo di appartenenti al genere meno rappresentato è già una misura forte, tra le più rigorose nel panorama comparato. Fatichiamo a immaginare che anche i più strenui sostenitori di regole inderogabili a sostegno della parità la ritenessero insufficiente. Il risultato di questo approccio è però un continuo stratificarsi di norme, una bulimia di vincoli che, messi tutti insieme, complicano le cose e sollevano molti dubbi sul rapporto tra costi e benefici della quotazione. Comporre un consiglio di amministrazione e un collegio sindacale è già difficile quasi come stabilire la formazione della Nazionale di calcio, tra non esecutivi, indipendenti, soggetti in possesso di qualifiche professionali e quote di genere, il tutto condito dal voto di lista e il ruolo delle minoranze. Le nuove norme imporranno certamente, alla prossima stagione assembleare, di lasciare a casa alcuni amministratori e sindaci che hanno ben lavorato e sono stati apprezzati, che hanno fatto un investimento di tempo e impegno per conoscere la società presso cui operano e, magari, legittimamente contavano su un ulteriore mandato.

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Invece di volere a tutti costi almeno 1,2 amministratori del genere sottorappresentato, sarebbe stato utile chiedersi perché le donne, pur presenti nei cda come indipendenti e non esecutivi, raramente in Italia hanno i ruoli di amministratore delegato o esecutivo; di rado, cioè, hanno in mano le redini della gestione e del vero potere imprenditoriale.

Forse, al legislatore sarebbe utile studiare più aritmetica. E occuparsi meno di corporate governance.

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Il Punto

  1. Federico Leva

    Un’interpretazione alternativa è che si intenda il genere meno rappresentato in un ambito piú largo, per esempio l’insieme delle cariche societarie o la media nazionale degli organi comparabili. Non sarebbe quindi uno svarione ma un rimando ad atti interpretativi successivi da parte di qualche legislatore consapevole di non essere capace di fare meglio.

    Non trovo comunque il testo vigente a cui si fa riferimento: nel testo vigente al 2019-12-25 si parla di sei mandati ma di un terzo, non due quinti.
    https://www.normattiva.it/uri-res/N2Ls?urn:nir:stato:decreto.legislativo:1998-02-24;58~art148!vig=2019-12-26

  2. Orlando

    Collegio sindacale composto da: Presidente (uomo); 2 membri effettivi uomo e donna.
    Supplenti ( entrambi anche revisori) . uomo (anni 50) ; donna (42).
    Membro effettivo donna comunica le proprie dimissioni irrevocabili.
    Chi subentra nel rispetto della parità di genere e rispetto all’art. 2401 (subentro del sindaco supplente più anziano d’età ?)
    Grazie

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