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Società quotate: è l’ora del voto plurimo?

Il voto plurimo nelle società quotate doveva essere introdotto in Italia attraverso il decreto Rilancio, ma l’idea è stata alla fine abbandonata. La norma aveva certo spunti positivi. Ma non mancavano le perplessità. In particolare, sulle sue finalità.

Di cosa parliamo quando parliamo di voto plurimo

Annunciata, prevista, descritta e infine abbandonata (senza troppe spiegazioni), l’introduzione del moltiplicatore di voti nelle società quotate è stata oggetto di particolare attenzione nei giorni precedenti la pubblicazione del “decreto Rilancio”.

Anche se la misura non ha trovato spazio nei ben 266 articoli del decreto legge n. 34 del 19 maggio 2020, l’importanza della questione e la nonchalance con cui l’esecutivo pare essersene velocemente disamorato impongono di soffermarsi, sebbene in via sintetica, su di uno strumento che affronta, con l’intento di scardinarlo, il principio “un’azione, un voto” (one share, one vote).

Con il termine voto plurimo ci si riferisce a una categoria di azioni cui è attribuito un diritto amministrativo potenziato, fino a un massimo di tre voti. Il voto plurimo è ricollegato al titolo azionario, a monte e a prescindere dalle qualifiche personali del relativo intestatario. Qui risiede, in particolare, la differenza tra questa categoria e quel voto maggiorato previsto all’art. 127-quinquies del Testo unico della finanza, che – per alcuni aspetti simile a un “premio fedeltà” – dopo un certo periodo di tempo consegna all’azionista fino a un massimo di due voti per azione (in merito si veda la comunicazione Consob dell’8 maggio 2020 http://www.consob.it/documents/46180/46181/c20200508_5.pdf/aee570ed-4165-4863-881a-d01ebf37ebd2).

Il voto plurimo non è concetto estraneo al codice civile (art. 2351) e al Testo unico della finanza: quest’ultimo, in particolar modo, già lo prevede all’art. 127-sexies, che vieta l’introduzione di tale categoria di azioni dopo la quotazione. La previsione italiana è diversa da quelle adottate, con distinte sfumature, in molti altri ordinamenti europei (si pensi all’Olanda) e non, con evidenti conseguenze di sistema (si veda Alessandro De Nicola, su la Repubblica A&F del 25 maggio 2020 https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2020/05/25/il-voto-plurimo-nella-foresta-pietrificataAffari_e_Finanza13.html?ref=search).

Le modifiche suggerite nella bozza del decreto Rilancio

Le modifiche suggerite dal decreto Rilancio, in formato “bozza” e “schema”, alla disciplina italiana del voto plurimo nelle quotate sono apparse particolarmente coraggiose e nette. Miravano essenzialmente a riscrivere in toto la norma del Tuf per consentire l’introduzione del voto plurimo anche dopo la quotazione, controbilanciata da un attento meccanismo di tutela delle minoranze assembleari.

La proposta intendeva realizzare distinte finalità, tra le quali quelle di: (i) inserire nel diritto “settoriale” uno strumento indirizzato a rafforzare il “controllo” sulla società, altrimenti a rischio di eccessiva dispersione o di possibili attacchi “ostili”; (ii) evitare che il rafforzamento prevalesse indebitamente sulle ragioni delle minoranze, “svantaggiate” dall’introduzione del voto potenziato; e (iii) bloccare ulteriori fenomeni migratori, da parte di quotate italiane, verso paesi i cui ordinamenti già consentono di avvalersi di questo istituto.

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La modifica all’art. 127-sexies Tuf – ferma restando la rimessione alla libertà statutaria dell’adozione (e, poi, delle relative modalità attuative) di azioni dotate di un massimo di tre voti l’una – proponeva dunque l’introduzione del moltiplicatore di voti, controbilanciato dal cosiddetto whitewash. Quest’ultimo è uno strumento già noto agli operatori in quanto caratterizzante la materia delle operazioni con “parti correlate”; in questo caso, è inteso a prescrivere, quale condizione di validità della delibera assembleare che introduce una categoria di azioni a voto plurimo, l’assenza del “voto contrario della maggioranza dei soci presenti in assemblea diversi dal socio o dai soci che detengono, anche congiuntamente, la partecipazione di maggioranza anche relativa, purché tali voti contrari siano almeno pari al dieci per cento del capitale sociale avente diritto a voto”.

In particolare, la difesa – che si sarebbe applicata anche alle deliberazioni in forza delle quali il medesimo effetto fosse conseguito, direttamente o indirettamente (e altresì mediante fusione o scissione), con un’operazione di trasferimento della sede sociale all’estero – si sarebbe aggiunta agli ordinari bilanciamenti offerti dall’approvazione delle assemblee speciali (art. 2376 cc) e dal diritto di recesso (art. 2437 cc), oltreché alla disciplina del conflitto di interessi secondo l’art. 2373 cc.

La norma avrebbe offerto un’ampia protezione ai soci non di controllo, senza tuttavia tramutarsi in un’indebita ipotesi di veto dei soci “minimi”, evitata dal necessario raggiungimento della soglia del capitale sociale.

Punti di forza e di debolezza

Di fronte agli innegabili spunti positivi, emergevano, tuttavia, talune perplessità, in particolare riferite alla forma, alle finalità e alle conseguenze pratiche della previsione, poi espunta, in tema di voto plurimo. Probabilmente, alcune avrebbero potuto essere risolte già in sede di conversione del decreto Rilancio. Pare comunque utile annotare alcuni punti di debolezza trapelati dall’approccio dell’esecutivo.

Innanzitutto, con riferimento alla forma e alle modalità attraverso cui si voleva modificare la disposizione del Tuf, una prima critica riguarda la scelta di uno strumento – il decreto legge – di cui paiono difettare i presupposti costitutivi di necessità e urgenza prescritti dalla carta costituzionale per il relativo esercizio (si vedano le precise riflessioni di Sabino Cassese sul Corriere della Sera del 13 maggio 2020 https://www.corriere.it/20_maggio_13/dl-rilancio-ombre-tempi-modi-3e64f6fa-955d-11ea-b53d-888d5c72a186.shtml).

Quello del voto plurimo, infatti, può essere un argomento forse necessario, ma di certo non dotato del requisito dell’urgenza (tant’è che se ne parla da anni, quantomeno da quando è iniziata la “fuga” all’estero di alcuni grandi gruppi); e dunque meritevole di essere trattato, nel caso, in una cornice normativa di diversa natura, frutto di un’attenta e (auspicabilmente) seria dialettica parlamentare.

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A questo ultimo aspetto si ricollega, poi, la seconda osservazione critica – quella relativa alle finalità. Infatti, non è chiaro (e la relazione alla “bozza” anzi complicava il quadro) se, più che a un doveroso restyling del complessivo contesto di riferimento (finalizzato, per l’appunto, al sempre più auspicato “rilancio” del nostro sistema economico-finanziario), la riforma tendesse invece a bloccare le scelte di forum shopping da parte di importanti realtà imprenditoriali nazionali, attraverso la costruzione di una sorta di “barriera all’uscita” per le società quotate indirizzate a dotarsi del voto potenziato.

Possibilità di blocco dei flussi verso l’estero, da un lato, e interferenza pubblica dei flussi in entrata (innanzitutto attraverso i golden powers, recentemente rafforzati), dall’altro, avrebbero rischiato (e ancora rischierebbero, se così riproposte) di disegnare un binomio pericoloso, soprattutto in prospettiva concorrenziale. Un binomio che certamente traduce una prevalenza del fine politico (talvolta figlio di logiche breve periodo) rispetto a ragionamenti di stretto diritto, che invece dovrebbero portare alla creazione di strumenti duraturi ed efficienti.

Per ciò che riguarda, infine, il profilo delle conseguenze pratiche della norma e, più in generale, della modifica “in aumento” dell’attuale disciplina del voto plurimo, vi è da chiedersi se una sua introduzione sia realmente in grado di attirare potenziali investitori, come i dati stranieri parrebbero confermare. Gli investitori, per un verso, potrebbero apprezzare la raggiunta uniformità di soluzioni tra Italia e altri paesi. Ma che, per l’altro verso, sarebbero forse disincentivati dall’investire in un sistema in cui il voto plurimo si tramuta, più o meno velatamente, in un ulteriore strumento di consolidamento dei soci di controllo.

Oggi, un qualsiasi giudizio su tale frangente non può che essere prematuro: il rischio, tuttavia, pare concreto, così come concrete sarebbero state le difficoltà applicative con le quali si sarebbero dovute cimentare le società intenzionate a introdurre a livello statutario clausole di voto plurimo.

Motivo per cui è forse un bene che la riflessione sul punto sia condotta “a freddo” e non già con la fretta tipica della disciplina emergenziale cui (purtroppo) siamo stati abituati.

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Due crisi, due welfare*

  1. Enrico D'Elia

    Il voto plurimo (soprattutto sotto forma di premio di fedeltà) rafforza la stabilità delle imprese e le protegge dall’influenza degli speculatori, incoraggiando strategie aziendali di lungo termine. Per altro rende le imprese meno contendibili, riducendo l’efficienza del mercato dei capitali e il rinnovamento dei gruppi dirigenti. Questo significa che il voto multiplo concesso a proprietari lungimiranti e dinamici favorisce lo sviluppo, mentre è controproducente se il pacchetto di controllo è nelle mani di speculatori o incapaci. Per certi versi il problema è simile a quello del latifondo, che nel sud Italia ha fatto disastri e in altri paesi è stato un volano dello sviluppo.

    • stefano mengoli

      ah ah ah fantastico. le stesse argomentazioni vengono utilizzate ma invece che in tono positivo in tono negativo. imprese controllate in modo stabile sono quello di cui ha bisogno l’Italia ed in particolare i risparmiatori Italiani. E’ un governo che naviga a vista. pensavano di introdurle quando hanno “sentito” di Campari che è andata a domiliarsi in Olanda

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