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Lavoratori che “si ricomprano” l’azienda, modello per la crisi

I workers buyout sono cooperative costituite da lavoratori di imprese in crisi che rilevano l’attività garantendone la prosecuzione e l’occupazione. Sono strumenti adatti alla situazione attuale. Qualcosa però deve cambiare nella governance cooperativa.

Cooperative per uscire dalla crisi

I workers buyout sono cooperative costituite da lavoratori di imprese in crisi che ne rilevano l’attività garantendone la prosecuzione e l’occupazione lavorativa. Non sempre, naturalmente, tutti i lavoratori partecipano al nuovo soggetto cooperativo sia perché spesso il turnaround dell’attività richiede un ridimensionamento dell’occupazione, sia per l’impegno finanziario necessario, che di solito viene soddisfatto attraverso rinunce a crediti verso l’impresa: Tfr, indennità di cassa integrazione, retribuzioni pregresse e così via.

Sin dalla “legge Marcora” (la n. 49 del 1985) e i successivi provvedimenti attuativi, per sostenere queste iniziative lo stato ha stanziato fondi pubblici, gestiti da cooperative finanziarie partecipate direttamente dal ministero dello Sviluppo economico, per interventi rotativi in linea capitale e finanziamento di debito. A favore delle cooperative costituite dai lavoratori è stato inoltre previsto il diritto di “prelazione” per l’affitto o l’acquisto di aziende in fallimento o altra procedura concorsuale, ed è stato anche riconosciuto il diritto di ottenere, “all’atto dell’aggiudicazione dell’affitto o della vendita”, l’anticipazione in unica soluzione delle somme altrimenti riconosciute per il loro trattamento di disoccupazione nel caso di interruzione del rapporto di lavoro (Naspi), con vincolo di destinarle alla capitalizzazione della cooperativa. 

Una realtà solida

Secondo i dati pubblicati da Cfi – Cooperazione Finanza Impresa (oggi l’unica cooperativa finanziaria per la gestione degli interventi previsti dalla legge Marcora), nel periodo 2011-2020 ci sono state 82 iniziative, con un valore della produzione di quasi 300 milioni di euro e un’occupazione di 1.855 addetti. L’investimento complessivo realizzato da Cfi (capitale e prestito) ammonta a 24 milioni di euro. 

Da un’altra fonte informativa, Coopfond spa, che gestisce il fondo mutualistico Legacoop, nel periodo 2008-2020 risultano dati di analoga importanza (non si sommano a quelli precedenti, in quanto molti interventi sono congiunti): 65 iniziative; un fatturato complessivo di 308 milioni di euro; 1.650 addetti di cui 1.414 soci lavoratori. L’investimento complessivo del fondo mutualistico ammonta a 19,8 milioni di euro. 

Un aspetto particolarmente significativo risulta essere quello relativo ai default, che in questi campioni oscilla tra il 10 e il 30 per cento dei casi. Il dato sembra particolarmente significativo se si considera che le iniziative nascono da imprese in crisi: indica che le operazioni di recupero sono il frutto (anche) di una ri-pianificazione finanziaria dell’impresa successiva alla crisi, che consente di ottimizzare i risultati riportandola in condizione di ricreare la continuità e ritornare a produrre reddito. 

Il decreto Rilancio 

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L’articolo 39, comma 5-bis, decreto legge 19 maggio 2020, n. 34 – il cosiddetto “decreto Rilancio” (convertito con modificazioni dalla legge 17 luglio 2020, n. 77) – ha adesso ampliato le risorse pubbliche con un ulteriore stanziamento di 15 milioni di euro destinati al sostegno di queste iniziative (non solo in forma cooperativa), oltre che di promozione di cooperative per la gestione di beni confiscati alla criminalità organizzata e di coop sociali per la salvaguardia dei livelli di occupazione. 

I workers buyout possono così diventare uno degli strumenti per fronteggiare le crisi imprenditoriali determinate dalla pandemia: non rappresentano certo la panacea di tutti i mali e presuppongono una attenta e ponderata valutazione delle reali possibilità di rigenerazione dell’impresa. I lavoratori si aprono a nuove forme di rischio e responsabilità mettendoci proprie risorse ed è importante che questo avvenga alla luce di una seria e rigorosa valutazione prognostica delle condizioni operative e di mercato; altrimenti è meglio non partire. Non vi è dubbio, però, che questa strada può avere il duplice effetto di salvaguardare i livelli occupazionali, garantendo la continuazione delle attività e la valorizzazione degli asset aziendali, ed evitare interventi ben più onerosi per lo stato in termini di ammortizzatori sociali. 

Ancora troppo piccoli

Tuttavia, il working buyout rimane ancora un fenomeno circoscritto alle realtà imprenditoriali di piccole dimensioni e con alcune rigidità della forma cooperativa che lo rendono molto efficace in alcune circostanze e molto meno in altre (forte insediamento sul territorio, presenza del rapporto mutualistico con i soci cooperatori, stretta partecipazione dei soci cooperatori e quindi maggiore complessità dei processi decisionali e di governance).

La vera sfida futura riguarda, quindi, la sua capacità di coinvolgere iniziative fuori dal perimetro della piccola impresa: è una prova difficile e ambiziosa. 

Non vi è dubbio, infatti, che la cooperativa istituzionalmente vocata a creare valore per gli azionisti, inteso non come remunerazione del capitale, ma come servizi ai soci nella loro veste di “stakeholder interni” alla società, ne fa un modello maggiormente funzionale a un mercato come quello che si prevede possa uscire dal post-pandemia, dove visioni imprenditoriali di lungo periodo e di grande attenzione agli interessi degli stakeholder diverranno dorsali essenziali per attraversare la crisi.

Ma per ampliare il teatro del working buyout sono necessari profondi interventi sulla governance cooperativa anche per la grande impresa, nell’ambito di una rete di rapporti tra organizzazioni di rappresentanza, organi di governo incaricati di seguire le politiche industriali, istituzioni locali. E purché tutti siano disposti a sperimentare la nuova carta.

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  1. jacopo Foggi

    Molto interessante. In cosa consiste la “Carta” citata alla fine dell’articolo? E’ possibile mettere un link?

  2. Debora Cerra

    In Argentina le chiamano empresas recuperadas. Fenomeno nato per effetto della crisi del 2001 gli argentini vantano una radicata tradizione ventennale ormai.

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