Nel piano della Commissione sulla migrazione ci sono solo richiami generici ai principi di solidarietà previsti dai Trattati e alla necessità di potenziare controlli alla frontiera e rimpatri. Ma tutto il sistema europeo d’asilo sarebbe da ripensare.
Il “patto” proposto dalla Commissione
Come un fiume carsico, il tema della “riforma europea della migrazione” riaffiora periodicamente per poi tornare a nascondersi nei meandri delle divergenze tra gli stati membri.
L’ultimo atto è del 16 settembre quando, nel corso del Discorso sullo stato dell’Unione pronunciato al Parlamento europeo, la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, ha annunciato un nuovo “Patto sulla migrazione”, fondato sull’idea che “la migrazione è una sfida europea e tutta l’Europa deve fare la sua parte”.
Sebbene quello della presidente sia apparso più come un indirizzo di principio che come un piano operativo (tra l’altro, all’interno di un lungo discorso in cui si parla anche di ambiente, sanità, innovazione, digitalizzazione, lavoro, Brexit, politica estera), alcuni hanno esultato parlando di “storica vittoria” e “abolizione dell’accordo di Dublino”.
In realtà nel piano della Commissione, presentato il 23 settembre e chiamato pomposamente “Un nuovo inizio per la migrazione: rafforzare la fiducia e raggiungere un nuovo equilibrio tra responsabilità e solidarietà”, non c’è traccia né della riforma di Dublino né di quote di ricollocamento automatiche o obbligatorie.
Il piano fa invece richiami generici ai principi di solidarietà previsti dai Trattati (e puntualmente disattesi dagli stati) e alla necessità di potenziare controlli alla frontiera e rimpatri.
Insomma, non molto di più rispetto all’annuncio fatto cinque anni fa da Jean-Claude Juncker, il predecessore di von der Leyen. Anche la Commissione Juncker, infatti, aveva cominciato la propria attività cercando di affrontare il tema della migrazione e la sua Agenda sulla migrazione aveva quattro pilastri: la riduzione degli ingressi illegali, la gestione delle frontiere, la politica comune di asilo e una nuova politica di ingressi legali. A distanza di cinque anni, possiamo dire che di quei punti programmatici non si è visto molto. Ad esempio, tra le azioni concrete, l’Agenda 2015 prevedeva il meccanismo di ricollocamento, con quote approvate dagli stati membri, ma poi disattese da molti.
Dunque, il problema principale è che le linee di indirizzo della Commissione devono essere poi vagliate e approvate dal Consiglio, ovvero da tutti gli stati membri, che hanno interessi contrastanti, specie su un tema così delicato come l’immigrazione.
In particolare, i paesi più restii ad accogliere i migranti sbarcati in Italia sono quelli del gruppo di Visegrad (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia), già condannati dalla Corte di giustizia dell’Ue per aver disatteso il piano di ricollocamenti del 2015.
Cosa prevede il regolamento
Il regolamento Dublino III (2013/604/Ce) è in realtà la terza tappa di un processo iniziato nel 1990 con la Convenzione di Dublino (entrata in vigore nel 1997 per 12 stati firmatari) e proseguito nel 2003 con Dublino II. Definisce i criteri e i meccanismi per determinare quale sia lo stato membro competente per l’esame di una domanda di protezione internazionale presentata in uno dei paesi membri da un cittadino di un paese terzo o da un apolide.
Nonostante preveda eccezioni in caso di legami con determinati paesi (ad esempio per la presenza di familiari), di fatto il regolamento stabilisce che la richiesta di asilo (e, quindi, l’accoglienza in attesa della valutazione) debba essere gestita dal primo paese dell’Unione in cui il migrante ha messo piede.
L’aumento degli sbarchi avvenuto tra il 2015 e il 2017 ha fatto emergere la criticità del sistema, fortemente penalizzante per i paesi di frontiera (Italia e Grecia in particolare), portando a una necessaria richiesta di riforma.
Nel novembre 2017, dopo anni di negoziati, il Parlamento europeo aveva approvato una proposta di modifica molto ambiziosa, introducendo una responsabilità condivisa nella gestione delle domande d’asilo. La riforma naufragò però al Consiglio europeo del giugno 2018 (il primo a cui partecipò per l’Italia Giuseppe Conte, all’epoca a capo del governo giallo-verde), che lasciò alla volontarietà degli stati membri gran parte delle azioni di solidarietà.
Le sfide future
Il piano della presidente von der Leyen rappresenta comunque un punto di partenza per la riapertura delle trattative, anche nell’ottica di aumentare il consenso dei cittadini europei nei confronti delle istituzioni comunitarie. Nella ricerca di soluzioni, però, andrebbero tenute presenti alcune dinamiche in corso.
Innanzitutto, bisognerebbe riconoscere che negli ultimi cinque anni gli arrivi si sono drasticamente ridotti (principalmente a seguito degli accordi tra Ue e Turchia del 2016 e tra Italia e Libia del 2017). Sommando le tre rotte mediterranee, il picco di oltre un milione di sbarchi del 2015 è ben lontano e nel 2020, secondo le proiezioni del primo semestre, non si dovrebbero superare i 100 mila arrivi.
Anche le richieste d’asilo in Europa si sono quasi dimezzate dal 2015 (1,26 milioni) al 2019 (676 mila), con riduzioni sensibili in molti paesi. In Italia, ad esempio, si è passati da 83 mila richieste nel 2015 a 35 mila nel 2019 (-58 per cento), mentre le punte massime si sono registrate nel 2016 e 2017 con circa 120 mila richieste.
Allora, perché si continua a parlare di “emergenza”? E perché non ci si concentra di più sui canali di ingresso per lavoro e sulle politiche di integrazione? Il motivo, come ricordato in un precedente articolo, è che in questi anni di minore pressione migratoria non si sono risolti alcuni limiti strutturali dei sistemi di accoglienza e asilo, né in Italia né in Grecia (dove la situazione a Lesbo continua a peggiorare).
Vista la situazione tutt’altro che stabile in molte aree del Sud del Mediterraneo (Libia e Siria su tutte), non si può sperare che i problemi degli sbarchi e delle richieste d’asilo siano risolti definitivamente.
Sarebbe dunque il momento opportuno per ripensare davvero il sistema europeo d’asilo, riformando gli accordi di Dublino e predisponendo un sistema comune di ingressi legali. La vera sfida, ancora una volta, sarà convincere tutti gli stati membri, mettendo l’interesse comune davanti a quello dei singoli paesi.
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Mauro Cappuzzo
Quindi, dato che gli ingressi illegali di clandestini sono diminuiti, non siamo più in emergenza. Infatti basta fare qualche regolarizzazione e il problema è risolto.
Per il futuro regolarizziamo in anticipo così il problema è nuovamente risolto.
Ma dove si trova l’obbligo di consentire l’ingresso in Italia a chiunque? In quale norma ? Oppure bisogna semplicemente prendere atto di quello che queste persone, migranti economici, ritengono loro diritto fare?
In ogni caso gli accordi di Dublino non fanno riferimento solo agli sbarchi nel Mediterraneo ma a qualsiasi ingresso clandestino e irregolare oltre le frontiere dell’Unione Europea
Serlio
Quanti immigrati clandestini può accogliere questo paese o l’Europa? Occorre chiarezza su questi dati