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Coronavirus e crisi economica: la risposta europea*

La crisi economica generata dal coronavirus ha messo a dura prova le istituzioni europee. Nel complesso, l’Europa ha risposto bene, come dimostrano le analisi dell’Osservatorio Monetario. Pubblichiamo qui l’introduzione, con l’esame delle misure adottate.

L’Europa di fronte alla pandemia

La pandemia scatenata dal Covid-19 e la crisi economica, dovuta alle misure di restrizione, hanno rappresentato una sfida formidabile per i governi di tutto il mondo.

Per l’Europa la sfida è stata ancora più insidiosa, poiché il governo dell’economia avviene nel nostro continente su più livelli: quello nazionale, quello della zona euro e quello della Unione europea. La Ue ha istituzioni complesse, che generalmente prendono decisioni in tempi lunghi e attraverso faticose trattative, procedendo per piccoli passi. L’emergenza Covid-19 ha richiesto invece decisioni forti e rapide. All’inizio della crisi, sembrava che l’Europa stesse per rimanere imprigionata nelle sue logiche fatte di diffidenze reciproche, veti incrociati e complicazioni procedurali. Poi invece ha dimostrato di sapere agire rapidamente e con decisioni importanti. Le iniziative prese nel campo della politica monetaria e fiscale rappresentano un successo per l’Europa, che ha così smentito i suoi detrattori. In particolare, alcuni degli strumenti introdotti, come il Sure (temporary support to mitigate unemployment risks in an emergency) e il Recovery Fund, prefigurano l’inizio di una politica fiscale europea. Senza fare del facile ottimismo, possiamo dire che queste novità contribuiscono a rimediare alla storica asimmetria che affligge l’area euro: politica monetaria unica e politiche fiscali nazionali.

Naturalmente resta ancora molta strada da fare, su due fronti. Il primo è l’individuazione delle modalità con le quali utilizzare la straordinaria dotazione di fondi messi a disposizione dai nuovi strumenti europei. Il secondo è il completamento del processo di integrazione fiscale, di cui le iniziative prese quest’anno rappresentano solo l’inizio.

Il n. 2/2020 di Osservatorio Monetario discute la reazione europea alla crisi generata dal coronavirus. Questa crisi ha messo in luce che vi sono due modi di decidere in Europa, diversi tra di loro: quello comunitario e quello intergovernativo. Il primo è quello utilizzato dalle istituzioni sovranazionali, in particolare dalla Banca centrale europea e dalla Commissione europea. Il secondo è quello che prevale nel Consiglio europeo, dove i capi di governo trattano tra di loro. Le istituzioni sovranazionali sono state in grado in tempi rapidi di attuare (nel caso della Bce) e di proporre (nel caso della Commissione Ue) interventi di ampio respiro, basati su di una visione che tenesse conto della necessità di una risposta corale alla sfida posta dalla pandemia. La trattativa tra i governi è stata invece impostata, almeno all’inizio, sulla base di una contrapposizione tra i paesi cosiddetti “frugali” e quelli interessati a realizzare importanti programmi di spesa pubblica senza accrescere troppo i già elevati debiti pubblici nazionali. Alla fine, l’accordo è stato trovato: un ruolo determinante è stato giocato dal governo tedesco, che ha fatto pendere la bilancia delle trattative a favore del secondo gruppo di paesi (tra cui il nostro), che rappresenta peraltro la netta maggioranza della popolazione europea (unitamente alla Germania stessa). La minaccia di un veto da parte di una piccola minoranza di paesi è stata così sventata.

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Gli strumenti per rispondere alla crisi

Il Recovery Fund (o meglio il Next Generation EU) mette a disposizione nei prossimi anni 750 miliardi di euro a livello europeo, di cui quasi 210 destinati all’Italia. Ora è di fondamentale importanza progettare bene l’utilizzo di questi fondi. I settori sui quali investire sono noti: l’ambiente, la digitalizzazione, l’istruzione, la ricerca, l’efficienza della pubblica amministrazione. Il problema è uscire dalla genericità delle linee-guida e individuare progetti precisi, nonché monitorarne la realizzazione. Cruciale sarà la governance dei processi decisionali: meglio accentrare il controllo presso una unica autorità piuttosto che disperdere le responsabilità. Un ostacolo da superare sarà la proverbiale complicazione e lentezza della pubblica amministrazione nostrana.

Un altro strumento importante è il Sure, il nuovo fondo europeo di sostegno ai lavoratori colpiti dalla perdita del lavoro. Il fondo, partito con una dotazione di 100 miliardi di euro, è già un successo: 17 paesi europei hanno fatto richiesta per utilizzarlo, per un totale di 87 miliardi (di cui 27 sono andati all’Italia).

Non altrettanto si può dire per la nuova linea di credito del Meccanismo europeo di stabilità (Mes) dedicata alle spese sanitarie (240 miliardi, di cui 36 potenzialmente destinati all’Italia): nessun paese ha fatto finora richiesta per utilizzarla. Evidentemente lo stigma politico associato al Mes è ancora forte e diffuso, nonostante la nuova linea di credito abbia come unica condizione la destinazione dei soldi a spese (direttamente o indirettamente) legate a motivi sanitari.

Sul fronte della politica monetaria, la Bce ha messo in campo un nuovo piano di acquisto di titoli, pubblici e privati, per 1350 miliardi, che si aggiunge a quelli già esistenti. Oltre alla dimensione, il nuovo piano si caratterizza per una maggiore flessibilità rispetto al passato, relativa agli acquisti di titoli di Stato: il limite del 33 per cento per emittente e per emissione è stato abilito e sono ammesse deviazioni rispetto al principio delle capital keys. Le operazioni mirate di rifinanziamento a lungo termine (Tltro III) sono diventate più convenienti per le banche e sono state affiancate da un altro strumento (Peltros) meno conveniente in termini di tasso d’interesse, ma potenzialmente illimitato. Tuttavia, la ripresa del quantitative easing da parte della Bce è avvenuta in un contesto istituzionale ancora non chiaro, che la espone a controversie legali, come dimostra la sentenza della Corte costituzionale tedesca del maggio scorso. L’emissione di debito europeo da parte della Commissione Ue, per finanziare il Recovery Fund e il Sure, potrebbe in prospettiva facilitare il compito della Bce, rimediando alla mancanza di un debito federale su cui indirizzare gli acquisti di titoli nell’ambito del Qe.

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La risposta delle autorità monetarie alla crisi non è avvenuta solo utilizzando gli strumenti di politica monetaria, ma anche muovendo le leve della regolazione e supervisione prudenziale. Prima della crisi, alcune misure prese in questo campo avevano reso più intensa e automatica la classificazione dei crediti problematici come non performing loans (Npl) generando costi addizionali per le banche in termini di accantonamenti patrimoniali. A partire dal marzo di quest’anno, la Bce, l’Eba (European Banking Authority) e l’Esma (European Securities and Markets Authority) hanno agito per allentare temporaneamente queste regole, accrescendo i gradi di libertà concessi alle banche nell’evidenziare a bilancio i crediti deteriorati e le relative perdite. Ciò al fine di agevolare l’erogazione di nuovi prestiti bancari e la concessione di moratorie su quelli esistenti.

* Angelo Baglioni è direttore dell’Osservatorio Monetario, Università Cattolica di Milano.

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  1. Savino

    I politici italiani (vedi Di Maio, tra le sue clientele a Pomigliano e dintorni) millantano la disponibilità di risorse che non hanno, che non si conosce se, quando e come riceveranno e di cui non c’è stata quantificazione, visto che il tutto si intreccia con le complicazioni della pandemia in Europa, col bilancio comunitario, con la realizzabilità da parte di chi finanzia (frugali) e di chi ha aspettative (Paesi di Visegrad e dell’Est) e con la concessione di eventuali anticipi. Inoltre, e non per ultimo, la questione del debito pubblico italiano rimane tutta in piedi, così come il ricorso in maniera costante agli scostamenti di bilancio e la necessità di una revisione complessiva della spesa dello Stato e della spesa pubblica complessiva di tutte le istituzioni e le entità amministrative repubblicane, a partire, come già hanno evidenziato Boeri e Perotti, dai compensi manageriali della sanità, ormai decisamente spropositati rispetto al fallimento degli obiettivi aziendali di sanità pubblica pressocchè ovunque.

  2. Il sostegno della BCE funziona fino al momento in ci si manifestino spinte inflazionistiche rilevanti. Dopo sarebbero dolori, soprattutto per l’ Italia. Per quanto riguarda gli eurobonds non ci sono ancora cespiti strutturali permanenti che ne garantiscano la solvibilità e il rating al di là degli interventi della BCE.

  3. Marcello Romagnoli

    “Nel complesso, l’Europa ha risposto bene, come dimostrano le analisi dell’Osservatorio Monetario”

    Direi proprio di no!

    Recovery funds. Prestiti, non fondo perduto come sarebbe necessario e ciò per la strana chimera che è la BCE.
    Non si sa se arriveranno, quando e quanto. Saranno debito da ripagare e che ci metterà in assoluta sudditanza. Anche i soldi creati dal nulla, in modo intelligente e nella giusta quantità, da parte di una banca centrale costituisce un debito dello stato con se stesso.

    L’acquisto da parte della BCE di titoli privati apre una voragine sulle garanzie della concorrenza: chi sarà finanziato sarà in vantaggio rispetto al concorrente che non lo sarà. Non mi stupirei che la prima si comprasse la seconda coi soldi della BCE

    La frase “Tuttavia, la ripresa del quantitative easing da parte della Bce è avvenuta in un contesto istituzionale ancora non chiaro, che la espone a controversie legali, come dimostra la sentenza della Corte costituzionale tedesca del maggio scorso. ” Spiega molto bene che le cose non vanno come dovrebbero andare in un sistema capace di reagire bene agli shock esterni. Lo si è sempre saputo.

    Arridateci la Lira che è meglio!

  4. bob

    Gli USA arrancano, l’Europa fa i compitini, La Cina cresce alla media del 4%. Tutto il resto è fuffa

  5. Henri Schmit

    Mi piacerebbe commentare alcune espressioni che avrei formulato diversamente. Devo dividere in tre. Non è chiaro che cosa si intenda con politica fiscale europea. Significa armonizzare le regole fiscali nazionali? In quel caso riguarderà la base imponibile, non le aliquote. O significa tasse europee per ingrossare il budget UE? Bisogna riconoscere che tali tasse esistono già, cioè i dazi e l’IVA, benché di entrambe solo una certa quota sia versata all’UE. Ma soprattutto nuove tasse europee (carbon, plastic, digital …) non cambierebbero nulla alla situazione vigente dei residenti perché sarebbero prelevate tutte (come l’IVA uniformemente) dagli Stati sui loro contribuenti.

  6. Henri Schmit

    Esistono poi due modi di decidere nell’UE, uno detto sovranazionale l’altro intergovernativo. Più precisamente esiste il metodo comunitario che vale per le competenze pre-Maastricht, riconosce l’esclusiva dell’iniziativa alla Commissione e prevede una codecisione fra PE e Consiglio il quale vota in linea di massima a maggioranza qualificata. Il resto – fra cui il budget settennale, eventuali obblighi di politica fiscale e qualsiasi allargamento delle competenze UE – è deciso dal Consiglio (cioè dai governi nazionali, doverosamente abilitati dai loro parlamenti) e all’unanimità. Un punto di vista superficiale vorrebbe ricondurre tutto, in particolare alcuni principi di politica economica e fiscale alla regola della maggioranza. Questo porrebbe un grave problema di democraticità, di trasparenza e di responsabilità (tre concetti correlati). 2/3

  7. Henri Schmit

    Invocare il peso demografico degli stati a favore dello strumento NGEu/RRF come definito all’unanimità il 21/07 è fuorviante. Se si contassero davvero i voti dei cittadini europei la bilancia sarebbe meno favorevole; penderebbe probabilmente dall’altra parte. Ma soprattutto la questione ancora aperta non è pro o contra la soluzione adottata, ma come definire la governance abbozzata all’articolo 19 per garantire il rispetto delle condizioni condivise. I paesi frugali hanno accettato a malavoglia la proposta franco-francese del debito comune e dei prestiti e trasferimenti ai singoli stati, perché temono che l’UE non sarà in grado di gestire un uso conforme, efficace e convergente di queste risorse dai singoli stati; che alcuni non saranno in grado di investire secondo le modalità concordate fra cui figura anche il rispetto di un piano di riforme che pesa maggiormente sui paesi inefficienti che non su quelli più competitivi. I frugali pensano meno ai governi illiberali dell’est che non ai governi incapaci (sarà il governo Conte2 in grado di realizzare un piano di riforme e di investimenti credibile?) e recalcitranti (sarà il prossimo governo italiano dopo le elezioni del 2023 ancora intenzionato di seguire il sentiero stretto della convergenza?) del sud. Il maggiore rischio europeo e dell’euro-zona si chiama Italia, un paese dove oltre 2/3 delle forze parlamentari sono o erano euroscettiche o a favore di un Italexit. Le prossime elezioni italiane sono attese con apprensione. 3/3

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