Lavoce.info

Come leggere i nuovi dati sul mercato del lavoro

La nuova classificazione di occupati e disoccupati adottata dall’Istat cambia almeno in parte i numeri sul mercato del lavoro durante la pandemia. L’indicatore più affidabile rimane comunque quello delle ore lavorate, che permette un’analisi più precisa.

Cambia la classificazione di occupati, disoccupati e inattivi

Il comunicato Istat sul mercato del lavoro di aprile merita un’attenzione particolare. Come riportato in un comunicato stampa a inizio marzo, in accordo con il regolamento Ue 1700/2019, approvato due anni fa ed entrato in vigore il 1° gennaio 2021, la classificazione degli individui all’interno della rilevazione della forza lavoro è cambiata a partire dall’inizio di quest’anno. Una questione tecnica dalle notevoli implicazioni pratiche.

Il cambiamento più rilevante è quello relativo alla classificazione degli occupati: fino a dicembre 2020, veniva considerato occupato ogni dipendente che percepisse almeno il 50 per cento della retribuzione, anche se assente dal posto di lavoro. In questo modo, le persone in cassa integrazione per più di tre mesi venivano considerate occupate, nonostante la mancanza di un’effettiva attività di lavoro. Allo stesso modo, gli autonomi che non avevano svolto alcuna attività lavorativa per più di tre mesi erano contati tra gli occupati, a patto che la sospensione dell’attività fosse temporanea e non definitiva.

Con la nuova classificazione, invece, non sono più considerati occupati i lavoratori dipendenti che sono assenti dal lavoro da più di tre mesi, e quindi anche i cassaintegrati, né gli autonomi che non svolgono alcuna attività lavorativa da più di tre mesi, pur se la sospensione viene considerata temporanea e non definitiva. Fanno eccezione i lavoratori che sono assenti dal lavoro per motivi di congedo parentale, anche nel caso in cui la loro retribuzione sia inferiore al 50 per cento della paga ordinaria.

Come cambiano i numeri con il nuovo metodo

In tempi di crisi e in particolare di profonda crisi come quella determinata dal Covid-19, la nuova classificazione comporta una riduzione notevole del numero totale di occupati, un aumento degli inattivi (i cassaintegrati, considerandosi in qualche modo “congelati” nel proprio posto di lavoro, difficilmente cercano una nuova occupazione) e un leggero aumento del tasso di disoccupazione, principalmente determinato dalla riduzione della forza lavoro, ossia la somma di occupati e disoccupati perché il tasso di disoccupazione si calcola come disoccupati/(occupati+disoccupati).

Come mostra la figura 1, questo tipo di aggiustamenti dovuti al nuovo metodo di rilevazione non sono particolarmente rilevanti in situazioni normali, ma fanno una grande differenza in periodo di crisi. Con la vecchia definizione, per esempio, il numero di occupati era calato di 426 mila unità tra febbraio e dicembre 2020, mentre con la nuova definizione le persone che l’anno scorso hanno perso il lavoro a causa della crisi sono 767 mila. Con i vecchi dati, inoltre, il trend decrescente si era concentrato tra marzo e aprile, in corrispondenza della prima ondata (figura 2). Con la nuova rilevazione, si registra invece un deciso peggioramento anche in autunno, con il persistere della crisi.

Chi ha pagato di più la crisi?

Leggi anche:  Un falso enigma sul lavoro

Con la nuova definizione, cambia anche il peso che ciascuna categoria ha dovuto sopportare in termini occupazionali. In questo senso, può essere utile osservare le differenze tra le due serie di dati, quella pubblicata il 6 aprile, in cui il numero degli occupati è stato calcolato con il nuovo metodo, e quella pubblicata a gennaio 2021 e relativa ai mesi fino a dicembre 2020, che utilizzava il vecchio metodo per il calcolo degli occupati. Occorre ricordare che Istat rivede regolarmente le serie relative al mercato del lavoro, specialmente per quanto riguarda i mesi più recenti, per cui la nostra analisi non prende in considerazione alcuni aggiustamenti che possono essere emersi negli ultimi due mesi. Ma al netto di qualche piccola variazione, possiamo assumere che i dati usciti a gennaio 2021 siano indicativi del trend generale.

Secondo le rilevazioni di fine 2020, per esempio, il numero di occupati con contratto a tempo indeterminato era addirittura aumentato. Con i nuovi dati, il numero è in calo di 218 mila unità tra febbraio 2020 e lo stesso mese del 2021, anche se le tipologie contrattuali più colpite restano i dipendenti a tempo determinato (-372 mila tra febbraio 2020 e febbraio 2021) e gli autonomi (-355 mila nello stesso periodo). Le differenze tra le due definizioni sono riportate nella figura 3.

Con la vecchia definizione, la perdita occupazionale era stata assorbita per due terzi dalle donne, maggiormente impiegate con contratti a tempo determinato. Con la nuova definizione, cresce il numero di uomini che perdono lo status di occupato.

I nuovi dati, quindi, indicano che la perdita occupazionale è stata più equamente distribuita tra donne e uomini. Il confronto è mostrato nella figura 4.

Con la nuova metodologia si registrano variazioni anche nel peso della crisi sopportato dalle classi di età: i più giovani rimangono i più colpiti, ma si azzera la crescita occupazionale degli over 50 e peggiorano i numeri per tutte le fasce di età inferiori, compresa quella 35-49 anni, come mostra la figura 5.

Un indicatore più efficace: le ore lavorate

Leggi anche:  Come garantire la sicurezza sociale dei lavoratori delle piattaforme*

La nuova classificazione degli occupati permette di far emergere in maniera più chiara quei lavoratori occupati in posti di lavoro “fantasma”: fino a dicembre sono rimasti nel computo degli occupati, ma in realtà da oltre tre mesi non sono effettivamente al lavoro.

Una volta di più, però, con le modifiche e la conseguente difficoltà a interpretare in tutti i dettagli i dati mensili, l’invito è a usare le ore lavorate più che il numero di occupati/disoccupati. Come già scritto da Lucarelli e Spizzichino su questo sito, le ore lavorate, infatti, permettono un’analisi più precisa dello stato del mercato del lavoro rispetto alle variazioni sia del margine estensivo (numero occupati o non occupati) sia di quello intensivo (occupati per quante ore).

Al di là delle novità metodologiche, i dati Istat mettono in ancor maggior evidenza tutta la gravità della crisi, in particolare facendo emergere coloro che pensavamo al lavoro e invece sono in cassa integrazione da parecchi mesi. A queste persone non basta un sussidio (per altro tra i più bassi dei paesi Ocse), ma hanno la necessità di essere presi in carico da centri per l’impiego o agenzie per il lavoro (le famose “politiche attive”). È molto concreto il rischio che il posto di lavoro a cui restano formalmente legati non torni più. Per questo motivo, è tempo che la politica economica non si occupi più solo della difesa dell’esistente con Cig, divieto di licenziamento e ristori, ma favorisca anche la creazione di nuove imprese e nuovo lavoro e accompagni e prepari i lavoratori ai nuovi lavori.

Lavoce è di tutti: sostienila!

Lavoce.info non ospita pubblicità e, a differenza di molti altri siti di informazione, l’accesso ai nostri articoli è completamente gratuito. L’impegno dei redattori è volontario, ma le donazioni sono fondamentali per sostenere i costi del nostro sito. Il tuo contributo rafforzerebbe la nostra indipendenza e ci aiuterebbe a migliorare la nostra offerta di informazione libera, professionale e gratuita. Grazie del tuo aiuto!

Leggi anche:  Bilancio positivo per l'occupazione nel 2023

Precedente

Serve un contesto per l’assegno unico e universale per i figli

Successivo

Titoli green per un debito pubblico sostenibile

  1. Enrico D'Elia

    Credo che le statistiche sul mercato del lavoro siano soggette ad una maledizione peggiore di quella di Montezuma e Tutankhamon messe assieme, perché vengono aggiornate sempre al momento sbagliato. La revisione del 1992 fu introdotta nel bel mezzo di una riforma del mercato del lavoro e di una crisi economica (seppure di entità ridicola rispetto a quelle degli ultimi anni). Allora la modifica delle classificazioni e dei questionari portò ad un balzo degli occupati e un crollo dei disoccupati, soprattutto perché bastava aver lavorato un’ora nell’ultima settimana per essere dichiarati occupati. All’epoca l’ISTAT non volle fornire stime ufficiali dell’impatto di queste innovazioni. Ora, per fortuna lo fa. Tuttavia un briciolo di buon senso avrebbe suggerito di “sospendere” la revisione, seppure richiesta da un regolamento europeo, fino alla fine dell’epidemia, come è stato fatto per regole decisamente più rilevanti come il patto di stabilità e le norme sugli aiuti di stato. Non si possono cambiare indicatori così rilevanti proprio quando sarebbero più necessari per prendere fondamentali decisioni di politica economica.

  2. Enrico D'Elia

    (continua)
    Concordo con gli autori sulla progressiva perdita di significato del conteggio delle persone occupate, che andrebbe sostituito con quello delle ore lavorate. In futuro sarà forse necessario passare ad una rilevazione sui progetti svolti, visto che il lavoro è sempre più spesso misurato (e retribuito) su tale base. Infine la nuova metodologia mette in luce quanto sia artificiosa la distinzione tra disoccupati e inattivi (categoria in cui confluiscono dipendenti in cig da oltre 3 mesi e autonomi senza clienti da altrettanto tempo). Per valutare il disagio sociale e lo stato del mercato del lavoro sarebbe dunque opportuno calcolare un tasso di disoccupazione “esteso” che includa anche gli inattivi in condizioni di lavorare ma che non cercano attivamente una occupazione. Sarebbe anche un buon modo per migliorare la comparabilità internazionale dei dati…contro i furbetti delle statistiche (e dei finanziamenti europei collegati alla disoccupazione ufficiale).

    • Massimo Taddei

      Grazie! Una misura che ho sempre trovato interessante è il TRUE unemployment rate calcolato dal Ludwig Institute for Economic Prosperity, che considera la percentuale di forza lavoro che “non ha un lavoro full time, ma ne vorrebbe uno, non ha un lavoro, o non ha un salario adeguato alla sussistenza (fissato in maniera conservativa a 20 mila dollari l’anno). Negli Stati Uniti sarebbe al 25,1 per cento, contro il 6,2 effettivamente registrato dal Bea. Si tratta sicuramente di un indicatore molto radicale, ma è interessante andare a vedere indicatori che vadano oltre le statistiche più utilizzate.

Lascia un commento

Non vengono pubblicati i commenti che contengono volgarità, termini offensivi, espressioni diffamatorie, espressioni razziste, sessiste, omofobiche o violente. Non vengono pubblicati gli indirizzi web inseriti a scopo promozionale. Invitiamo inoltre i lettori a firmare i propri commenti con nome e cognome.

Powered by WordPress & Theme by Anders Norén