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Donne e lavoro all’alba della ripresa

Le proposte della Gender Equality Strategy europea e del Pnrr italiano per promuovere la parità sono perlopiù positive. Ma occorre un salto culturale per comprendere che senza la partecipazione delle donne al mondo del lavoro la società non può crescere.

Gli obiettivi della Gender Equality Strategy e del Pnrr

Per comprendere come la crisi sanitaria ed economica abbia aggravato il problema della posizione delle donne nel mercato del lavoro, occorre partire dal tasso di inattività. Si va dal 32,1 per cento della Lombardia (contro il 14,8 per cento riferibile agli uomini) al 59,9 per cento della Sicilia (contro il 28,4 per cento degli uomini).

Perché così tante donne non cercano un’occupazione? Secondo un’indagine condotta dalla Commissione europea, posta alla base della Gender Equality Strategy 2020-2025, il 44 per cento degli europei ritiene a tutt’oggi che il compito principale di una donna sia dedicarsi alla casa e alla famiglia. Una percentuale che è persino superiore in Italia, mentre è sensibilmente inferiore in Svezia.

Ecco, dunque, il problema da affrontare: la donna non può venire identificata principalmente e primariamente per la sua funzione familiare. Dobbiamo diventare tutti consapevoli del fatto che senza la partecipazione delle donne al mondo del lavoro la società non può crescere. In questo senso non serve a molto insistere sull’esigenza di aumentare la natalità e favorire la conciliazione tra vita professionale e vita lavorativa se tali vengono associati pressoché esclusivamente alle donne, così perpetuando lo stereotipo per cui la società si affida a loro prima di tutto per la creazione e la cura della famiglia.

La genitorialità deve diventare un’aspettativa che la società ripone sia sull’uomo sia sulla donna, passando da una cultura della conciliazione a una cultura della condivisione delle funzioni genitoriali. È quanto ha cercato di fare, per esempio, la direttiva Ue del 2019 sull’equilibrio tra attività professionale e vita familiare, estendendo pur di poco la durata del congedo di paternità obbligatorio. Tuttavia, in Italia, stando ai dati Inps, nonostante più dell’80 per cento dei cittadini approvi l’uso dei congedi parentali da parte dei padri per occuparsi dei figli, soltanto il 2,73 per cento dei padri lavoratori dipendenti nel settore privato che hanno usufruito del congedo parentale obbligatorio richiede quello facoltativo (dati provvisori del 2019).

Superare gli stereotipi che vedono nella donna una risorsa solo della famiglia anziché della società nel suo complesso è uno degli obiettivi della Gender Equality Strategy e del Piano nazionale di ripresa e resilienza che definisce la parità di genere una priorità fondamentale e trasversale ai tre pilastri del piano: equità, efficienza e competitività. Si afferma che “la mobilitazione delle energie femminili è fondamentale per la ripresa dell’Italia” salvo poi dire, per esempio, che l’estensione del tempo pieno a scuola (iniziativa sacrosanta) serve a sostenere le madri con figli anziché i genitori con figli o che occorre garantire l’accesso delle donne anziché dei genitori all’assistenza all’infanzia.

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Va da sé che, se l’obiettivo fondamentale della società è che la donna lavori, occorre metterla nelle condizioni di farlo. Così, è evidente che occorre esternalizzare il lavoro di cura investendo nei servizi all’infanzia, nella scuola e nelle attività formative in senso ampio, estendendone anche la durata in modo da renderla compatibile con la giornata lavorativa.

Del pari, è necessario investire nell’assistenza agli anziani non autosufficienti che grava prevalentemente sulle donne e, sotto questo aspetto, va apprezzato lo sforzo compiuto nel Pnrr, dove si interviene per la prima volta con convinzione su questo tema.

Azioni collettive contro la discriminazione di genere

Sulla lotta alle discriminazioni di genere nell’accesso al lavoro e nella progressione di carriera, si può fare molto di più. È sorprendente che, sul piano giudiziario, siano così poche le cause in materia di discriminazione collettiva di genere. Sono decisamente più numerose le azioni collettive promosse, per esempio, contro la discriminazione per origine etnica, per nazionalità o di discriminazione sindacale. Se la discriminazione di genere continuerà a essere affrontata in una dimensione solo individuale, sarà difficile raggiungere risultati significativi perché le donne non sempre sono consapevoli di essere vittime di politiche aziendali discriminatorie e fanno fatica a esporsi in prima persona.

Per favorire un maggiore utilizzo dello strumento della discriminazione collettiva di genere occorrerebbe allargare la legittimazione attiva – oggi circoscritta alla Consigliera di parità che spesso non ha sufficienti strumenti per acquisire informazioni dalle aziende e instaurare un contenzioso così impegnativo – al sindacato e alle organizzazioni non governative. Per esempio, in materia di discriminazione collettiva sindacale, la Cgil ha portato avanti cause straordinarie: da Ryanair e Fiat sino al contenzioso recente contro Deliveroo a tutela dei diritti sindacali dei rider del food delivery. Anche nel campo delle discriminazioni per nazionalità e origine etnica il sindacato e altre associazioni (Asgi – Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione, per esempio) hanno ottenuto risultati significativi.

È importante consentire a tutti questi soggetti di agire, anche di concerto con la Consigliera di parità, nel campo delle discriminazioni di genere. La strategic litigation può rivelarsi uno strumento essenziale per disvelare politiche aziendali potenzialmente discriminatorie sia sul piano retributivo sia sul piano della promozione e dell’avanzamento nella carriera.

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Chiari spunti in questa direzione si trovano (oltre che nell’articolo 17 della direttiva 2006/54) nella proposta di direttiva sulla parità retributiva uomo-donna e sulla trasparenza salariale del 4 marzo 2021 che mira, tra l’altro, a rafforzare la tutela giurisdizionale collettiva attribuendo la legittimazione ad agire non solo agli organismi di parità, ma anche ad associazioni, organizzazioni, rappresentanti dei lavoratori e, in generale, a tutti quei soggetti che dimostrino di avere un interesse a far rispettare il principio di parità retributiva (elemento che può emergere, per esempio, dallo statuto o, come nel caso del sindacato, dalla storia dell’organizzazione).

La tutela giurisdizionale collettiva diventerà particolarmente importante con la diffusione del working from home – dal lavoro a domicilio industriale, allo smart working sino al lavoro digitale on demand prestato nell’interesse di piattaforme come Amazon Mechanical Turk – che, come conferma il Rapporto Ilo 2021, interessa principalmente le donne.

Se lo smart working, che presenta innegabili benefici in termini di flessibilità, è meno apprezzato dalle donne rispetto agli uomini perché percepito come un ostacolo alla carriera e perché rende troppo permeabile la linea di confine tra vita privata e vita professionale, il lavoro digitale on demand sottende il rischio di lavoro povero e sfruttamento. A questo proposito, è da notare la scarsità di riferimenti nel Pnrr al tema del lavoro dignitoso e di qualità, del salario minimo legale (a cui è dedicato solo un breve accenno) e della lotta al precariato: temi, viceversa, oggi non più procrastinabili.

In conclusione, molte proposte contenute nel Pnrr e nella Gender Equality Strategy sembrano andare nella giusta direzione, ma occorrerà compiere un vero salto culturale per creare il terreno in cui potranno germogliare e dare i propri frutti.

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  1. Maria Vittoria Ballestrero

    Cara Orsola, convinta come sono da sempre che la conciliazione non debba essere un affare riservato alle donne, sono d’accordo con le tue osservazioni. Sulla legittimazione attiva, credo che la questione del coordinamento con le consigliere di parità sia molto seria, e meriti una più attenta riflessione.

  2. Maria Cristina Migliore

    Condivido in toto l’articolo e soprattutto la sua impostazione: il tasso di inattività come punto di partenza. C’è solo un punto che andrebbe forse integrato: l’enfasi posta sulla necessità di esternalizzare il lavoro famigliare di cura. Questo punto dovrebbe essere presentato in abbinamento con l’altro: quello dell’organizzazione del lavoro e della produzione di mercato. Non è equo che siano le famiglie a doversi riorganizzare – fino ad esternalizzare i servizi, che magari qualcun preferirebbe svolgere in prima persona – e non le imprese e le organizzazioni in generale. Anche le aziende e gli enti dovrebbero organizzarsi per permettere alle persone di prestare lavoro di cura ai propri familiari o amici o vicini o altri.

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