Dopo il referendum sull’acqua pubblica del 2011, il sistema è regolato dai principi dell’ordinamento europeo, senza alcun tradimento della volontà popolare. Ora è tempo di rinunciare agli slogan e concentrarsi sui problemi, per trovare soluzioni.

Il ritornello della volontà popolare tradita

È dall’indomani del referendum 2011 sull’acqua pubblica, che sentiamo ripetere incessantemente la fake news della volontà popolare tradita. Il popolo sovrano, recita la litania, sarebbe stato ingannato diverse volte. Prima cogliendo dall’esito del voto l’opportunità per trasferire le competenze regolatorie dal ministero dell’Ambiente all’Arera – presentata come una quinta colonna dello stato imperialista delle multinazionali, sacerdotessa del mercatismo neoliberista. Poi permettendo che le gestioni mantenessero l’assetto della società per azioni, “ontologicamente orientate al profitto” e quindi nemiche del bene comune. E ancora, rinunciando a espropriare le gestioni che nel frattempo si erano aperte all’investimento privato – le multiutility quotate e la mezza manciata di società miste. Infine, resuscitando la “remunerazione del capitale” sotto mentite spoglie e non perdendo occasione per consentire alla proprietà delle aziende di lucrare qualche margine di profitto.

Da qui la necessità di un intervento legislativo che rimetta le cose a posto. Un tentativo, come si ricorderà, c’era stato ai tempi della “proposta di legge Daga” che il governo giallo-verde era stato vicino ad approvare: se fosse passata avrebbe riportato il paese indietro di 25 anni. Prima che il Parlamento decida di riprendere in mano quella sciagurata proposta, non sarà male ricordare alcune cose.

Il popolo italiano votò, è vero, per abrogare due norme: la prima aveva introdotto l’obbligo di affidare i servizi con gara, impedendo l’affidamento diretto “in-house”; la seconda prevedeva che la tariffa assicurasse “l’adeguata remunerazione del capitale investito”.

I comitati referendari avevano in mente un certo disegno – quello di riportare l’acqua in finanza pubblica, e le gestioni nel modello “in economia”. Ma si dovrebbe anche sapere che la Costituzione più bella del mondo prevede che i referendum siano abrogativi e non affermativi, anche perché quando si chiede di rispondere con un sì o con un no, è relativamente facile interpretare il quesito nella pars destruens (ciò di cui si chiede l’abrogazione), ma non altrettanto facile è declinarne la pars construens (quello che si vuole in cambio).

Nel caso specifico, i promotori si guardarono bene dal rendere esplicito il loro disegno. Si fece piuttosto balenare l’idea che la colpa degli aumenti tariffari fosse il profitto (e che una volta soppresso quello, le tariffe sarebbero ridiscese a valori normali e sopportabili); oppure si inventarono inverosimili manovre finanziarie a suon di “bond irredimibili”, finanza etica, ridestinazioni della spesa (i famosi cacciabombardieri F135). Quanto alle spa “in house”, la campagna referendaria si fece bella proprio delle migliori tra queste, all’epoca presentate come l’emblema del pubblico che funziona e oggi additate al pubblico ludibrio come entità malefiche.

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Che piaccia o meno, l’esito del voto non fu quello di fare dell’acqua un “bene comune”, ma piuttosto un “bene comunitario” – nel senso che, abrogate quelle norme, sarebbero stati i principi dell’ordinamento europeo a costituire le fonti del diritto in materia. Sul punto si espresse in modo chiarissimo la Corte costituzionale. Ignorare questo fatto, continuando a battere sulla grancassa del voto tradito, è, perciò, intellettualmente disonesto.

Un falso problema

L’ordinamento europeo prevede che l’affidamento in-house sia pienamente legittimo, al pari delle sue altre forme. Via l’obbligo (o presunto tale) di privatizzare, via le norme che relegavano la gestione pubblica in una sorta di serie B; ma non per questo vale l’obbligo, opposto, di “ripubblicizzare” tutte le gestioni, e meno che mai quello di ri-trasformare le gestioni pubbliche societarizzate – le società in-house, appunto – in enti di diritto pubblico. Sia la gestione in-house sia il ricorso a forme di collaborazione con il privato (nella forma della concessione o della public-private partnership) – sono ugualmente legittime: la scelta è unicamente politica.

Quanto alla “remunerazione del capitale”, la norma che fu abrogata era in realtà un inciso, che era stato male interpretato come se intendesse assicurare un profitto garantito. Così non era, ma comunque sia, nella norma sopravvissuta (e nei principi europei) si afferma in modo chiarissimo che la tariffa deve coprire tutti i costi, compreso quello del capitale investito, proprio per evitare, o ridurre al minimo, il ricorso alla fiscalità generale. È la direttiva 2000/60 a imporre il “full-cost recovery” e non è stata abrogata da nessun referendum. Che il concetto di “costo” includa anche i costi finanziari è, a sua volta, pacifico, non potendosi aspettare che l’acqua sia finanziata solo da enti filantropici. Che l’acqua debba ritornare in fiscalità, quindi, è una cosa che gli elettori non hanno mai detto né avrebbero mai potuto dire, con buona pace dei comitati e dell’analfabetismo economico delle loro proposte.

Ora, a distanza di dieci anni, non si comprende in che cosa il voto sia stato disatteso. Nessuna delle gestioni in-house è stata interessata da privatizzazioni – tutt’al più le aziende pubbliche si sono consolidate sul territorio, assorbendo gestioni preesistenti, ma pur sempre mantenendo gli strettissimi requisiti imposti per rendere legittimo l’affidamento diretto: la proprietà pubblica, l’oggetto sociale confinato alla gestione dei servizi affidati, il “controllo analogo” da parte degli enti locali.

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Sarà anche vero che le spa sono “ontologicamente orientate al profitto”, ma come minimo i profitti, quando ci sono, vengono per lo più accantonati a riserva e destinati a investimenti. Se poi vengono distribuiti, vanno comunque a finire nelle casse del comune. Nulla vieta peraltro di inserire nello statuto clausole ancora più esigenti in tema di destinazione dell’utile, di rendicontazione, così come forme di partecipazione dei cittadini alla governance.

La regolazione tariffaria, dal canto suo, ha ulteriormente rafforzato, se ce ne fosse stato il bisogno, il presidio volto a evitare che sull’acqua si possano fare profitti e a limare quanto possibile la rendita di monopolio (se poi qualcuno ancora confonde l’utile di bilancio con il profitto, non possiamo che suggerire un ripasso dell’abc della microeconomia). Che il modello di regolazione adottato sia pienamente coerente con l’esito referendario è stato ribadito anche dal Consiglio di Stato, con una sentenza tombale, di una chiarezza tale da non ammettere repliche: non è certo il caso di ritornarci su.

Ma soprattutto, non si vede la ragione di continuare a guardare all’indietro, invece che in avanti. Sono passati dieci anni, e molte cose sono cambiate da allora. Alcune nel bene, altre nel male. Alcune non sono cambiate affatto, e dobbiamo decidere se ciò è un bene oppure un male. È pensabile che il dibattito in materia di acqua, nel nostro paese, la smetta di essere basato su slogan – sempre più vuoti di significato – e si concentri sui problemi che abbiamo, sullo spazio in cui possiamo cercare le soluzioni? La domanda da porsi oggi non è se il sistema abbia aderito alle proposte dei comitati referendari, ma piuttosto se il sistema avviato nel 2011 ha funzionato oppure no, e cosa si può eventualmente fare per farlo funzionare meglio.

Nel biennio in cui la “proposta Daga” è stata all’attenzione del Parlamento, è stata prodotta una gran mole di documenti, a cominciare dai resoconti delle indagini conoscitive. Prima di rilanciare, per l’ennesima volta, il mantra del referendum tradito, sarebbe utile un ripasso di quel che fu detto e scritto in quell’occasione.

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