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La settimana corta dei belgi e i confini del lavoro dipendente

La proposta del Governo belga di consentire la ripartizione dell’orario normale in quattro giorni è solo una parte di un pacchetto di misure che riguarderanno anche le nuove forme di organizzazione, nelle quali il tempo di lavoro non ha più rilievo.

La settimana lavorativa di quattro giorni

La proposta del governo belga della “settimana corta a parità di retribuzione” ha suscitato molto interesse; ma il clamore è prematuro e probabilmente sproporzionato rispetto alla portata effettiva della notizia. Innanzitutto, perché si tratta, appunto, ancora soltanto di una proposta in attesa di essere tradotta in un disegno di legge, che conterrà diverse altre misure in materia di lavoro e che dovrà essere discussa e approvata dal Parlamento; ma anche, soprattutto, perché la proposta, esaminata più da vicino, risulta assai meno innovativa di quanto possa apparire a prima vista.

Il ministro del Lavoro Pierre-Yves Demargne ha spiegato l’iniziativa del governo in questi termini: il lavoratore potrà chiedere di concentrare il proprio orario settimanale normale – oggi di 38 ore, secondo la legge belga – in quattro giorni, impegnandosi dunque a lavorare per una media di nove ore e mezza al giorno, restando la retribuzione invariata; il datore di lavoro potrà respingere la richiesta, ma soltanto fornendo solide ragioni di carattere organizzativo a sostegno del rifiuto, ragioni che presumibilmente dovranno essere oggetto di un vaglio giudiziale.

Si può dunque osservare subito che la proposta del governo belga non riguarda una riduzione dell’estensione temporale della prestazione lavorativa, bensì soltanto una modifica della sua collocazione temporale nell’arco della settimana, che dovrà comunque di regola essere oggetto di un accordo tra datore e prestatore di lavoro.

La portata effettiva della proposta del governo belga si riduce ulteriormente se si considera l’evoluzione che sta subendo gran parte del lavoro inserito in una organizzazione aziendale. Esso è di fatto sempre meno assoggettato a un rigido coordinamento spazio-temporale, perché il suo coordinamento con il resto dell’organizzazione aziendale è sempre più diffusamente assicurato dal collegamento in rete a mezzo di un terminale mobile: il “lavoro agile” o smart working costituisce ormai una forma normale di organizzazione del lavoro dipendente, per lo più – ma non sempre – in alternanza con la forma di organizzazione tradizionale. È, inoltre, in costante aumento la frazione degli occupati il cui inserimento nell’organizzazione aziendale si realizza mediante il collegamento a distanza con una piattaforma digitale che mette in contatto diretto il fornitore di un servizio con il fruitore: lo stesso pacchetto di misure messo a punto dal governo belga contiene nuove disposizioni in riferimento al cosiddetto platform work e la Commissione Ue ha aperto il cantiere di una direttiva per la promozione e il coordinamento delle discipline nazionali di questa forma nuova di organizzazione del lavoro.

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La distinzione sempre più evanescente tra lavoro subordinato e autonomo

La realtà è che – se si eccettuano le attività direttamente manifatturiere e alcuni servizi come quelli di custodia e vigilanza, reception o centralino telefonico, magazzino – il coordinamento spazio-temporale, che per l’intero secolo passato ha costituito un tratto essenziale del lavoro subordinato, sta perdendo peso effettivo ogni giorno che passa nell’organizzazione del “lavoro nell’impresa”. E con esso sta perdendo peso l’orario di lavoro, inteso sia come estensione temporale che misura la quantità di lavoro, sia come collocazione temporale necessaria per il coordinamento della prestazione con il resto dell’attività aziendale. Per questo aspetto diventa nei fatti sempre più evanescente la distinzione fenomenologica tra il lavoro autonomo e gran parte del lavoro dipendente; al tempo stesso diventa sempre meno cruciale la disciplina dell’estensione e della collocazione temporale della prestazione lavorativa dipendente. Viceversa, sempre più si avverte la necessità di nuove tecniche normative – che spetta soprattutto alla contrattazione collettiva elaborare e sperimentare – per la protezione di chi lavora in posizione di sostanziale dipendenza da un’impresa dallo sfruttamento eccessivo sempre in agguato, per un verso, ma anche per la difesa del riposo giornaliero, settimanale e annuale dall’“assedio” di un lavoro che non ha più confini temporali precisi.

L’evanescenza sempre più marcata della linea di confine tra lavoro subordinato e lavoro autonomo, poi, riproporrà con sempre maggior forza la necessità di attribuire valore, ai fini dell’applicazione almeno delle protezioni essenziali dell’ordinamento lavoristico, alla nozione di “dipendenza economica” del prestatore dall’impresa.

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  1. Savino

    Non si capisce perchè chi lavora in certi uffici, soprattutto pubblici ma anche privati, non abbia il dovere di dimostrare degli skills, proprio quegli skills che sono diventata un’ossessione per i nostri giovani che non riescono a trovare occupazione. Puoi lavorare un’ora o cento ore alla settimana, modificare la settimana tipo, lavorare da casa, ma se gli skills non ci sono è un problema per la produttività individuale e collettiva e non puoi continuare a vendere aria fritta, perchè, mi ripeto, il mercato del lavoro dal punto di vista della domanda è contendibilissimo.

  2. L’orario “concentrato” belga mi lascia perplesso per diversi motivi:
    1° potrebbe essere applicato solo per lavori con massimo uno o due turni. Superati questi diventa inapplicabile.
    2° da ormai 40anni pare consolidato il concetto che meno ore lavori durante la giornata più alta è la produttività del lavoro svolto. Aumentare a 9 ore e mezza significherebbe ridurre la produttività.
    Sicuramente il lavoro agile in remoto si è imposto durante la pandemia.
    Cambia sicuramente l’approccio dell’organizzazione del lavoro e la sua remunerazione.
    Tanto però c’è da chiarire per renderlo prassi contrattuale.
    – l’uniformità di accesso alla rete internet
    – la destinazione degli spazi privati destinati al lavoro
    – la negoziazione degli obiettivi
    – il valore aggiunto della creatività sociale
    eccetera

  3. Firmin

    Il confine sempre più labile tra lavoro autonomo e dipendente comporta una retribuzione e condizioni di lavoro sempre più legate al “risultato” rispetto che al tempo di lavoro. La soluzione belga mi sembra vada esattamnete in questa direzione. In pratica si sta tornando al cottimo e ai tempi in cui il dipendente doveva portare da casa gli strumenti di lavoro (dagli utensili, fino agli abiti). In questa prospettiva il lavoro rischia di essere smart solo per gli imprenditori medio-grandi (non per quelli piccoli che somigliano sempre più ai dipendenti precari dei grandi committenti). Come se ne può uscire? Temo che solo la parte della PA che offre ancora posti di lavoro tradizionali ipergarantiti (e che si va assottigliando) può esercitare una pressione concorrenziale tale da contrastare le tendenze degenerative del mercato del lavoro. In pratica conviene sopportare qualche “fannullone” in più (secondo i pregiudizi correnti) affinchè tutti gli altri lavoratori abbiano una alternativa praticabile a condizioni da terzo mondo.

    • Savino

      Invece è proprio la p.a. che deve dare esempio di efficienza, sono proprio le istituzioni pubbliche e la politica che debbono cominciare a premiare il merito, sono proprio i sindacati che debbono parametrare gli standard contrattuali alle prestazioni del lavoratore abile e non di quello fannullone.

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