Il riassetto del servizio idrico al Sud è una vicenda ormai trentennale. La situazione è grave perché impedisce l’accesso ai fondi pubblici europei. Dove mancano operatori industriali deve essere obbligatorio l’affiancamento di soggetti qualificati.

Un ritardo di quasi trent’anni

Il 5 gennaio la legge Galli ha compiuto 28 anni. Quella legge aveva chiaramente indicato la necessità di superare le gestioni dell’acqua da parte dei comuni, prescrivendo ambiti gestionali di dimensione almeno provinciale e la nascita di operatori integrati, dalle fonti sino alla depurazione. Ebbene, ventotto anni dopo, alcune aree del paese sono ancora in attesa di una gestione del servizio idrico degna di questo nome. Nel Sud Italia, in particolare, le inerzie e le inadempienze delle pubbliche amministrazioni impediscono la nascita di operatori industriali. I ritardi peseranno ancora di più sul futuro se questi territori non riusciranno ad accedere alle risorse del Piano nazionale di ripresa e resilienza.

La situazione del Mezzogiorno

Per quanto riguarda l’individuazione degli enti di governo degli ambiti – consorzi di comuni cui è affidata l’organizzazione del servizio e la scelta della forma di gestione – il percorso appare concluso. Eppure, nonostante una loro individuazione formale, l’Autorità di regolazione per l’energia e le reti (Arera) ha segnalato in più occasioni al Parlamento criticità circa la loro effettiva operatività, in special modo in Calabria e in Sicilia, dove il dibattito locale non sembra aver compreso le ragioni dei fallimenti passati: comuni che si rifiutano di cedere le reti, governatori che ricusano gli operatori “privati”, gestioni dirette dei comuni che non incassano le bollette e si sottraggono al confronto con il regolatore nazionale.    

Il principale ostacolo è la mancanza di operatori industriali. In Calabria, Molise, così come in Sicilia e in Campania, la frammentazione è ancora tanta. Di converso, in questi anni è rimasta lettera morta la legge che aveva previsto la nascita di una società dello Stato, partecipata dalle regioni, che avrebbe dovuto occuparsi dell’acqua del Mezzogiorno.

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I fondi europei

La Commissione Ue ha chiarito che il mancato aggiornamento delle pianificazioni comporta il non poter accedere a fondi pubblici, come i contributi Por Fesr (Fondo europeo di sviluppo regionale), e a quelli della politica di coesione 2021-2027. Un po’ come dire che se non conosci i fabbisogni non puoi spendere bene i soldi del bilancio europeo, quindi è meglio non mandarne.

Per non perdere i fondi europei, la Regione Sicilia ha commissariato cinque ambiti territoriali idrici (Ati) su nove, dando il mandato di realizzare gli adempimenti necessari. In Campania è stato adottato il Piano d’ambito regionale. Pure in Calabria è stato adottato il Piano d’ambito, un risultato raggiunto anche grazie al Protocollo d’intesa siglato con il Ministero della Transizione ecologica. In Molise, a gennaio 2021, è stato siglato un Protocollo di intesa tra l’ente d’ambito e il ministero, che prevede un intervento di accompagnamento per accedere ai fondi della politica di coesione 2021-2027.

Qualche passo in avanti, dunque, è stato compiuto. Ma i ritmi appaiono incompatibili con i tempi cogenti del Pnrr. 

La “proposta” di Arera al Parlamento

Il Pnrr può rappresentare uno snodo cruciale per il rafforzamento della governance del settore idrico, soprattutto per quelle aree del Mezzogiorno dove è più forte il cosiddetto water service divide, termine anglosassone il cui equivalente italiano suonerebbe come “sottosviluppo”.

Perché queste risorse vengano erogate è decisivo il rispetto dei tempi.

Il cronoprogramma si articola in due momenti:

  • il primo, già decorso (quarto trimestre 2021), ha stabilito con il Dl Recovery l’assorbimento delle gestioni non salvaguardate nelle gestioni uniche entro luglio 2022;
  • il secondo prevede che entro il terzo trimestre 2022, sia assicurata la piena capacità gestionale, ovvero vi siano ovunque operatori in grado di organizzare e realizzare gli interventi.

Arera aveva inviato al Parlamento una segnalazione già nel luglio del 2021, suggerendo semplificazioni degli affidamenti e il coinvolgimento di operatori industriali. Nello specifico, l’Autorità indicava la necessità di un termine perentorio per decidere sugli affidamenti e, in caso di mancato rispetto, il ricorso a gestioni transitorie da parte di società a controllo pubblico in partenariato con operatori industriali. L’Autorità proponeva di prevedere oneri a carico della finanza pubblica in caso di inadempienze, così da responsabilizzare gli enti locali.

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Tuttavia, le misure suggerite da Arera sono rimaste sinora inascoltate. Sì al supporto tecnico da parte di un soggetto pubblico qualificato, ma senza termini perentori e senza sanzioni. Un compromesso al ribasso, dove la sanzione è il mancato accesso ai fondi del Pnrr. Dunque, una ulteriore vessazione inflitta ai cittadini.

Per alcuni territori, i ritardi accumulati hanno già precluso l’accesso ai fondi aggiuntivi del bando React-EU e alle prime tranche dei finanziamenti del Pnrr.

Obblighi di affiancamento dove mancano le competenze

Per i territori che mancano di competenze e operatori industriali è necessario un affiancamento. Non può essere una facoltà, deve essere un obbligo.

Non bisogna illudersi. Se i nuovi gestori verranno costituiti al mero fine di soddisfare i criteri di accesso ai fondi, non disporranno delle capacità organizzative e realizzative.

Non si tratta solo di intercettare i fondi del Pnrr, ma di dar vita a soggetti capaci di gestire il servizio, esercire gli impianti, progettare e realizzare gli interventi necessari, riscuotere la tariffa: soggetti industriali, solidi e dotati di competenze.

In questi giorni, si sta approntando il nuovo Ddl Concorrenza: l’auspicio è che non si riapra la lacerazione sugli assetti proprietari, ma si prenda consapevolezza della necessità di percorsi differenziati, chiari e cogenti.

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