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Ritorno al passato in nome dell’acqua pubblica

È stato presentato in Parlamento un disegno di legge che si propone di “attuare il referendum del 2011”. Se approvato, capovolgerebbe l’intero assetto della riforma dei servizi idrici del 1994. Proprio ora che se ne incominciavano a vedere i frutti.

Il Ddl per “attuare il referendum del 2011”

C’è qualcosa di nuovo oggi in Parlamento. Anzi, d’antico: un disegno di legge con una lunga lista di firmatari, capofila Federica Daga, si propone di “attuare il referendum del 2011”, capovolgendo così l’intero assetto della riforma dei servizi idrici avviata nel 1994.
Il disegno di legge prevede infatti l’affermazione dell’acqua come “bene comune” (concetto ignoto al nostro ordinamento giuridico) e del servizio idrico come privo di rilevanza economica, erogato secondo una logica di puro bisogno, come la sanità o l’istruzione; il ritorno alle aziende speciali di diritto pubblico, senza attendere la scadenza degli affidamenti esistenti, ma subito, grazie a un “fondo per la ripubblicizzazione” finanziato dalla fiscalità; il ritorno di ogni decisione in capo ai consigli comunali; manager di nomina politica; il ritorno degli investimenti alla fiscalità generale; l’erogazione gratuita di 50 litri al giorno pro-capite, anche a chi non ne ha bisogno; l’abolizione delle autorità di regolazione indipendenti e il ritorno delle competenze in materia tariffaria al ministero dell’ambiente; la fiscalizzazione dei debiti sin qui contratti.
Con tanti saluti al massiccio programma di privatizzazioni previsto per finanziare la “manovra del popolo”, che partirebbe con un handicap di 15 miliardi (tra indennizzi e rimborso dei debiti). Più 5 miliardi di investimenti e altri 2 per il bonus sociale, da mettere nella legge di bilancio ogni anno.

Gli effetti positivi della riforma del 1994

Ma il male peggiore non è questo. Peggio delle fake news sono infatti le “fake correlations”, gli accostamenti scorretti e tendenziosi di cose che non c’entrano. Singolarmente vere – o quasi – con numeri che chiunque può ritrovare nelle statistiche, ma impacchettati in modo fuorviante, teso a suggerire colpe che non esistono, a invertire cause ed effetti, giocando con le parole per slittamenti semantici, agitando paure, proclamando slogan di facile presa e facendone discendere soluzioni che portano nella direzione opposta.
A forza di ripeterle, però, anche le peggiori panzane sembrano vere. E così ci si può convincere che in Italia ci sia stata una privatizzazione e che i privati lucrino profitti, in barba alla volontà popolare. E ciò perché le gestioni sono sì pubbliche, ma organizzate in forma di società, e si finanziano sul mercato invece che tramite la fiscalità.

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Proprio per limitare la scelta dell’affidamento in-house era sorta la norma che il referendum ha abrogato. Ma oggi quelle stesse società sono additate al ludibrio come portatrici del virus del neoliberismo, cavalli di Troia della mercificazione del “bene comune”.
Nessuno osserva che il referendum, se pure abolì l’“adeguata remunerazione del capitale”, si guardò bene dall’abolire il principio secondo cui devono essere le tariffe a coprire i costi del servizio, compresi quelli ambientali, come peraltro stabilito dalla direttiva quadro 2000/60, e compresi i costi di capitale, che va inteso nel significato micro-economico di costo-opportunità, come chiarito dal Consiglio di stato. E, ciononostante, le tariffe italiane, sebbene siano cresciute notevolmente, sono ancora le più basse d’Europa.
In tutto il mondo, dove i servizi idrici funzionano, sono i cittadini a pagarli (anche se li gestisce il pubblico). E dovunque nel mondo, l’erogazione attraverso la finanza pubblica genera clientelismo, servizi scadenti, reti sgangherate, investimenti inadeguati.

Nessuno ricorda che la riforma del 1994 fu varata (con voto quasi unanime) proprio per ovviare al disastro creato nei decenni precedenti da un modello di gestione simile a quello che i benecomunisti pentastellati vorrebbero riesumare, grazie al quale gli investimenti erano precipitati sotto i 10 euro l’anno pro capite e, con loro, la capacità di mantenere le reti e ammodernarle secondo i dettami di una politica ambientale sempre più ambiziosa.
Che il sistema idrico italiano sia ancora in prognosi riservata, è cosa nota. Non serve richiamare i tanti indicatori dello stato di salute delle nostre reti (le perdite, i depuratori che ancora qua e là mancano, le procedure di infrazione, l’erogazione a singhiozzo in molte aree del Mezzogiorno, l’inquinamento delle falde). Ma con tutti i ritardi, le false partenze, i difetti emendabili, la riforma ha da tempo iniziato a produrre effetti positivi. Gli investimenti sono ripartiti, tornando verso i 50 euro/anno (non sono ancora i 100-120 dei paesi più sviluppati, ma sono pur sempre il quintuplo di due decenni fa). Le criticità non scompaiono di colpo, ci vuole tempo, anche perché dopo decenni di abbandono è giocoforza dover rincorrere le emergenze. Ma chi non si ferma alla superficie, vede che il sistema si è rimesso in moto, la qualità dei servizi migliora.
Dove i miglioramenti sono più stentati, è proprio perché la riforma è ancora ferma al palo. La vetrina del modello “refendariamente corretto”, l’ABC di Napoli, di euro per abitante ne investe solo 4 per abitante nel 2014-2015 e 5 nel 2016-2017. A chi si scandalizza perché le spa, in qualche caso, distribuiscono dividendi ai soci (peraltro pubblici) ricordo che proprio all’azienda speciale ABC il comune di Napoli ha razziato 16 milioni di euro di riserve, in un solo colpo.

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Ci sono voluti venti anni per andare a regime; e proprio ora che si iniziano finalmente a vedere i frutti, si vuole gettar tutto alle ortiche. Torneremo a una logica di investimenti in infrastrutture slegata dalla gestione, pensata e pagata da soggetti che non hanno nulla a che spartire con chi gestisce, ispirata da criteri macroeconomici e non dalle esigenze della rete. Toglieremo per sempre al mercato la voglia di investire nelle nostre aziende, quando in tutto il mondo l’acqua è una delle destinazioni preferite proprio da quegli “investitori pazienti” tanto invocati.
Confindustria ha annunciato in questi giorni un’inedita protesta: recintare con nastri gialli i cantieri bloccati e le infrastrutture pericolanti. Presto, se questo disegno di legge andrà in porto, un grande nastro giallo potrà circondare l’intero sistema idrico nazionale. Nessuno, quel giorno, potrà dire che “gli economisti non l’avevano previsto”.

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  1. Savino

    Ai grillini piace l’acqua gestita dalla politica e non da aziende serie. Evidentemente non sanno quanto gli acquedotti abbiano fatto mangiare. O vogliono partecipare alla mangiatoia anche loro. Di sicuro, non si può dire di essere per il “popolo” quando gli si vuol fornire un servizio scadente, con una rete piena di falle, con potabilità incerta e farglielo pagare come tassa. Costringeranno ancora pìù persone a comprare acqua minerale, quando ne potremmo fare benissimo a meno.

  2. Daniele

    Se io utente potessi scegliere tra diversi fornitori d’acqua, forse il modello della privatizzazione del bene potrebbe essere interessante. In regime di monopolio, con l’unico obiettivo del profitto, non vedo perche` un’azienda fornitrice d’acqua dovrebbe voler fare gli interessi dell’utente.

  3. Nicola

    Contrariamente a quello che ripetono in continuazione alcuni membri dei Comitati per l’Acqua Pubblica, i dividendi pagati ai gestori non sono il problema principale e tantomeno lo è il livello tariffario, che continua mediamente a essere tra i piu bassi in Europa. Piuttosto, le vere sfide che i servizi idrici del nostro paese dovranno affrontare nei prossimi decenni saranno il cambiamento climatico, la lotta a forme sempre più sofisticate e pervasive di inquinamento, e la minore disponibilità di capitali pubblici.

    Purtroppo, il modello di riforma dei servizi idrici rappresentato dalla PdL52 non sembra disegnato per mobilizzare né i capitali né le competenze necessari per ottenere i tanto auspicati miglioramenti di qualità dell’ambiente e tutela delle risorse idriche. Anzi, esso mette in discussione proprio quella parte della disciplina vigente che meglio ha funzionato, ossia la regolazione tariffaria dell’Arera, e che andrebbe semmai rafforzata.

  4. Andrea Mangano

    Ottima sintesi delle assurdità delle posizioni grulline sul tema. Aggiungerei che le uniche parti del paese dove ci sono ancora grossi problemi e non sono in vista miglioramenti, sono proprio quelle dove la riforma del 1994 non è stata applicata, ovvero ahinoi, quasi tutto il Sud.

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