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Dove sono andati a finire i lavoratori che si sono dimessi?

Il 2021 è stato l’anno delle “grandi dimissioni” anche in Italia. Ma cosa fanno oggi i lavoratori che hanno lasciato volontariamente il posto di lavoro? I dati delle comunicazioni obbligatorie indicano un maggiore dinamismo del mercato del lavoro.

Grandi dimissioni o grande rimescolamento?

Il fenomeno delle cosiddette “grandi dimissioni” continua a tenere banco, in un dibattito avviato proprio da un contributo qui su lavoce.info. Alla prima analisi ne son seguite molte altre (le principali qui, qui, qui e qui), che hanno approfondito i contorni del fenomeno. Occorre ora cercare di capire, più a fondo, dove sono “andati a finire” i lavoratori che si sono dimessi. Hanno trovato un nuovo lavoro? Se sì, simile o differente rispetto a quello che hanno lasciato di loro spontanea volontà?

Negli Stati Uniti, infatti, ci si chiede se siamo davvero di fronte a una “great resignation” (le grandi dimissioni, appunto) oppure a un “great reshuffle”, ovvero “un grande rimescolamento”, con spostamenti di lavoratori alla ricerca di nuove e diverse posizioni dopo le dimissioni.

Ancora una volta, per rispondere a queste domande relativamente al caso italiano utilizziamo i dati dal campione rappresentativo di comunicazioni obbligatorie rilasciato dal Ministero del Lavoro per motivi di ricerca, ora aggiornati fino al quarto trimestre del 2021.

Tornare al lavoro

La prima domanda è: dopo le dimissioni, quanti lavoratori trovano un nuovo lavoro? Intuitivamente siamo portati a pensare che un lavoratore lasci volontariamente il proprio posto di lavoro solo sulla base di una alternativa certa. E, infatti, nel corso del dibattito sulle “grandi dimissioni” si è spesso associato il fenomeno a quello delle cosiddette “job to job transitions”, ovvero gli spostamenti da un lavoro all’altro.

Come prima cosa, quindi, verifichiamo la quota di lavoratori che trovano un nuovo lavoro dopo essersi dimessi e come questa quota sia cambiata durante la pandemia. I grafici della Figura 1 mostrano l’andamento negli ultimi cinque anni del tasso di rioccupazione post-dimissioni a diversi orizzonti temporali (una settimana, un mese, tre mesi). In media, circa il 35 per cento dei dimessi dal 2017 in poi comincia un nuovo lavoro entro una settimana dal termine del precedente, un valore che inizia a salire già alla fine del 2020, in coincidenza con la seconda ondata di Covid-19, raggiungendo un picco del 40 per cento. Si mantiene poi stabilmente sopra la media degli anni passati per tutto il 2021. Una dinamica simile, sebbene su livelli diversi, si osserva anche considerando l’orizzonte temporale a un mese e a tre mesi. Interessante notare l’assenza dell’aumento a fine 2020 per l’orizzonte temporale a tre mesi, segno che in quel periodo si sono accorciati i tempi tra un lavoro e l’altro (che sono passati in media da 13 a 10 giorni, tra il 2017-2019 e il 2020), ma alla fine dei conti non è cambiata la quantità di lavoratori che hanno ripreso a lavorare come dipendenti dopo le dimissioni.

Scomponendo questi risultati rispetto alle caratteristiche demografiche dei lavoratori, si nota che il tasso di rioccupazione a un mese degli uomini è strutturalmente più elevato di quello delle donne di circa 10 punti percentuali e che, mentre le donne hanno registrato un aumento a partire dalla fine del 2020, per gli uomini l’incremento è arrivato solo nel 2021. Sul fronte anagrafico, i lavoratori tra i 40 e i 49 anni sono quelli con il tasso di rioccupazione a un mese più elevato (in media intorno al 55 per cento, con picchi del 60 per cento nel 2020), seguiti dai 30-39enni e poi da 15-29enni e 50-64enni. Da ultimo, il tasso di rioccupazione a un mese post-dimissioni cresce nettamente al crescere del titolo di studio, ma l’aumento a fine 2020 è stato trainato esclusivamente dagli individui con un titolo di studio post-secondario, che invece nel 2021 non hanno visto un significativo incremento rispetto al periodo pre-pandemico, a differenza di chi invece è in possesso di un titolo di studio secondario o inferiore.

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Dove si ricollocano?

Possiamo ora chiederci se sia in atto un “great reshuffle” nel mercato del lavoro italiano. I grafici nella Figura 2 (in maniera simile a quanto già analizzato su lavoce.info qui e qui) mostrano la percentuale di lavoratori che ha trovato un lavoro in un settore o in una professione diversa dalla precedente, rispetto al totale di coloro che hanno iniziato un nuovo lavoro alle dipendenze entro un mese dalle dimissioni dal precedente. Si può chiaramente notare un aumento di entrambi gli indici già a fine 2020, aumento che rimane molto stabile e consistente nel corso del 2021. Tuttavia, nonostante il trend sia chiaro e rilevante, l’ordine di grandezza dell’aumento non sembra tale da poter parlare di “great reshuffle”.

Se di nuovo si scompongono i due indicatori rispetto alle caratteristiche demografiche dei lavoratori, il tasso di riallocazione settoriale e professionale si attesta su livelli simili per uomini e donne, anche se gli uomini presentano un aumento più marcato di entrambi gli indici nel corso del 2021. Sul fronte anagrafico, entrambi gli indici mostrano una decrescita al crescere dell’età del lavoratore al momento delle dimissioni, con l’aumento post-pandemico trainato maggiormente dai dimissionari under40. Rispetto poi al livello di istruzione, il tasso di riallocazione per chi possiede un titolo di studio terziario è quasi doppio rispetto a chi invece non ne possiede alcuno, ma allo stesso tempo l’aumento nel 2021 è trainato soprattutto da chi ha la licenza media o nessun titolo di studio.

I dati che emergono dall’analisi delle comunicazioni obbligatorie mostrano un accresciuto dinamismo del mercato del lavoro italiano: i lavoratori che rassegnano volontariamente le dimissioni, oltre a essere in significativa crescita rispetto al periodo pre-pandemico, trovano lavoro più rapidamente e più frequentemente e si spostano in un settore o in una professione diversi da quelli di provenienza.

Se il fenomeno è interessante e da approfondire sia dal punto di vista scientifico che dal punto di vista delle politiche pubbliche, i numeri non sembrano sostenere l’idea di una “rivoluzione” sul fronte della riallocazione rispetto alle condizioni del mercato del lavoro italiano nel periodo 2017-2019.

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  1. Savino

    Dove sono andati a finire i selezionatori che hanno fatto superare un colloquio di lavoro a chi aveva altro tipo di aspettative, scartando chi aveva davvero bisogno di un’occupazione? Le motivazioni, quando si parla del mondo del lavoro, sono tutto. Un selezionatore di HR ha mia chiesto in un colloquio come il lavoratore si comporterebbe in presenza/assenza di disponibilità al telelavoro, oppure in presenza di un ipotetico obbligo vaccinale. E, allora, che razza di selezionatore è’?

  2. Federico Magnolfi

    Dato che gli stipendi non aumentano, le persone provano a cambiare settore cercando di trovare quello secondo loro con più prospettive. I nuovi datori di lavoro sono contenti di farlo perchè tanto i lavoratori più esperti non sono disposti a pagarli di più.

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