Il ritardo economico del Sud è un freno alla crescita generale e un’importante fonte di disuguaglianza del nostro paese. Il Pnrr offre però l’occasione per un deciso miglioramento delle prospettive di sviluppo. Lo spiega un rapporto della Banca d’Italia.
Il ritardo del Sud si è accentuato
Il ritardo economico del Mezzogiorno rappresenta la più importante fonte di disuguaglianza per l’Italia e uno dei maggiori freni alla crescita economica complessiva del nostro paese. Nel Mezzogiorno vive un terzo della popolazione italiana ma viene prodotto poco più di un quinto del Pil; dalle regioni meridionali si origina appena un decimo delle esportazioni nazionali.
La Banca d’Italia ha recentemente concluso un progetto di ricerca sull’economia meridionale, i cui risultati sono stati sintetizzati in un rapporto, presentato a Roma il 20 giugno.
Le analisi forniscono un quadro aggiornato dei divari territoriali in Italia nel sistema produttivo, nel mercato del lavoro, nel finanziamento delle imprese e nei fattori di contesto e contengono alcune riflessioni sulle priorità di intervento pubblico a favore del Mezzogiorno. Rispetto ai risultati del precedente progetto di ricerca che oltre un decennio fa la Banca d’Italia ha dedicato al tema, il quadro è per certi versi diventato più preoccupante: i divari si sono allargati e la questione meridionale è diventata ancor più chiaramente parte di una più ampia questione nazionale.
Con la crisi finanziaria (2008-2009) e quella successiva dei debiti sovrani (2011-2013), l’Italia ha registrato infatti un significativo arretramento e ha perso ulteriore terreno rispetto ai paesi più avanzati e al resto d’Europa, accentuando una tendenza già evidente dalla fine degli anni Novanta del secolo scorso. Il Mezzogiorno, che già dagli anni Ottanta aveva mostrato difficoltà nel mantenere il passo con il resto del paese, ha visto progressivamente diminuire il suo peso economico (Figura 1), evidenziando una crescente difficoltà nell’impiegare la forza lavoro disponibile, una riduzione dell’accumulazione di capitale, in precedenza fortemente sostenuta dall’intervento pubblico, e una minore crescita della popolazione rispetto alle aree più avanzate del paese, dove si sono concentrati i flussi migratori.
Figura 1 – Pil a valori concatenati e rapporto tra investimenti e Pil a valori nominali
I pochi segnali di vitalità – relativi, per esempio, all’andamento delle esportazioni o alla capacità di intercettare i flussi turistici internazionali (molto aumentata nel decennio precedente la pandemia) – sono stati troppo deboli e non sono stati sufficienti a ridurre il profondo arretramento dell’economia meridionale.
L’ampliamento dei divari territoriali in Italia segue comunque anche una tendenza analoga, che ha riguardato la maggior parte delle economie avanzate (Figura 2). I processi diffusivi dello sviluppo economico si sono infatti indeboliti e si è accentuata la distanza tra le regioni periferiche e le aree che vantano centri urbani in grado di sviluppare forti economie di agglomerazione.
Figura 2 – Coefficiente di variazione del Pil pro capite regionale
Il settore privato meridionale, già fortemente sottodimensionato, si è ulteriormente contratto: al Sud sono accentuati i tratti tipici del sistema produttivo nazionale, tra i quali il ruolo preponderante di micro imprese e di attività a controllo familiare, nel complesso poco dinamiche e meno in grado di sfruttare le nuove tecnologie digitali. È ulteriormente cresciuto il peso delle attività tecnologicamente poco avanzate e a basso contenuto di conoscenza. Tali caratteristiche, unite a fattori di contesto sfavorevoli come i tempi lunghi delle procedure di recupero dei crediti per via giudiziale, si traducono in maggiori difficoltà ad accedere al credito e ad altre forme di finanziamento. Nel complesso i livelli di impiego della forza lavoro, già tra i più bassi di Europa, sono ulteriormente diminuiti, come è diminuita la qualità media dell’occupazione; nel settore privato rimane alta l’incidenza del lavoro irregolare ed è maggiore l’instabilità dei rapporti lavorativi.
Sulle difficoltà economiche del Mezzogiorno pesano pure gli ampi ritardi nella dotazione di infrastrutture e nella qualità nei servizi pubblici erogati sia dagli enti locali, sia dallo stato attraverso le proprie articolazioni periferiche. Tali divari riflettono in parte una carenza di risorse che si è aggravata nel decennio precedente lo scoppio della pandemia, durante il quale la politica di bilancio nazionale è stata in prevalenza orientata al consolidamento dei conti pubblici. Al contempo, gli indicatori disponibili su efficienza, efficacia e correttezza dell’azione amministrativa nel Mezzogiorno appaiono significativamente peggiori della media italiana.
L’occasione del Pnrr
Alla luce di tutto ciò, le priorità di politica economica andrebbero orientate verso due obiettivi principali. Il primo riguarda il miglioramento della qualità dell’azione pubblica, che dovrebbe comprendere un assetto più efficace della governance degli interventi pubblici, un deciso potenziamento nella qualità degli input – umani e tecnologici – della pubblica amministrazione, nonché un orientamento più forte al conseguimento dei risultati, anche ricorrendo a meccanismi incentivanti. In secondo luogo, appare necessario un rafforzamento dell’iniziativa privata, attraverso la riduzione dei gap infrastrutturali del Mezzogiorno, lo sfruttamento del potenziale di sviluppo delle sue agglomerazioni urbane e un innalzamento qualitativo del tessuto produttivo. In particolare, il vasto programma di riforme e investimenti delineato nel Piano nazionale di ripresa e resilienza offre al paese l’opportunità di rafforzare questi ambiti, affrontando con il sostegno di mezzi finanziari significativi alcuni dei problemi strutturali che ormai da un quarto di secolo ne frenano la crescita. Il Piano riveste una rilevanza particolare per il Mezzogiorno, dove alcune delle criticità strutturali che riguardano anche il resto del paese si presentano in forma più acuta. Le risorse rese disponibili dai fondi europei e nazionali sono ingenti. Se saranno impiegate adeguatamente e se saranno anche occasione di accrescere la qualità delle politiche ordinarie, il Mezzogiorno, come il resto del paese, potrà conseguire un deciso miglioramento delle sue prospettive di sviluppo e assicurare ai suoi cittadini una migliore qualità della vita.
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Savino
A me pare che si sia stata solo compresa la parte del “prendere” nel PNRR. Non sono solo soldi da “prendere”, ma ci sono anche riforme da “fare”, risorse umane da ben “collocare”, degrado sociale e urbano da “risanare”, burocrazia da “efficientare”. E’ vero che c’è un’occasione unica, ma è anche vero che bisogna cambiare la mentalità del Paese e colmare le tante criticità e non lasciarsi sempre scorrere via tutto. L’orizzonte è next generation e non i soliti dinosauri e gattopardi italiani.
shadok
Se pensiamo che lo sviluppo sia solo conseguenza di investimenti pubblici siamo veramente ridotti male e se pensiamo che gli interventi individuati nel PNRR possano promuovere una crescita duratura stiamo freschi… Peraltro, da quello che sto vedendo nel settore in cui lavoro (servizio idrico integrato) i fondi del PNRR non verranno “buttati” ma saranno comunque spesi male, “sprecati” in interventi di per sé non sbagliati o inutili ma che dovevano (e potevano!) essere finanziati dalla tariffa. Stiamo spendendo a debito denaro che non crea sviluppo “vero” (innovazione) ma realizza/rinnova quasi sempre infrastrutture tradizionali (in termini di contenuti tecnologici), peraltro contribuendo a drogare sempre più il settore costruzioni. Ogni volta che sento la sigla PNRR mi vengono crampi allo stomaco.
Marco Casagrande
Da professionista dei Fondi europei, condivido lo scetticismo di cui ai precedenti commenti.