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Riglobalizzazione: dalla supremazia dell’economia a quella della politica

L’economia mondiale sembra riconfigurarsi in gruppi integrati di paesi affini, sotto la sfera di influenza americana o cinese, in competizione per l’egemonia economica, politica e culturale. Per la Unione europea non sarà un percorso semplice.

La globalizzazione dopo la seconda guerra mondiale

Un nuovo ordine mondiale si prospetta all’orizzonte e la globalizzazione non sarà più la stessa. Negli ultimi anni, gli sforzi di molti paesi si sono indirizzati verso la creazione di alternative all’economia globale integrata sviluppatasi a partire dalla seconda guerra mondiale. Un processo che ha conosciuto un’ulteriore accelerazione in seguito alla guerra in Ucraina e alle conseguenti sanzioni economiche inflitte alla Russia da parte della comunità internazionale.

A partire dalla seconda guerra mondiale, proprio per contrastare alcune delle cause del conflitto – oltre che naturalmente alcune delle sue conseguenze – vi è stato un movimento internazionale, diplomatico e politico, volto a raggiungere un’integrazione dei mercati dei diversi paesi che fosse globale e multilaterale, vale a dire che non lasciasse fuori nessuno. Lo si è fatto per due ragioni: in primo luogo, per una ragione di stabilità, nel senso di cercare di evitare che si creassero blocchi contrapposti; in secondo luogo, per una ragione di inclusività, nel senso di evitare che i grandi paesi industrializzati si mettessero d’accordo fra loro in modo mirato, secondo i propri interessi, escludendo dagli accordi quelli in via di sviluppo. Questi ultimi, dopo la seconda guerra mondiale, erano paesi giovani: in molti casi ex colonie o stati nati fra il primo e il secondo conflitto mondiale dalla dissoluzione dei blocchi imperiali. 

Operativamente, lo sforzo ha richiesto la creazione di importanti organizzazioni internazionali, tra cui la Banca Mondiale, il Fondo monetario internazionale e, successivamente, l’Organizzazione mondiale del commercio (Omc). Tuttavia, già prima della nascita dell’Omc, molteplici round negoziali avevano messo molti paesi attorno a un tavolo con lo scopo di integrare le diverse economie in una maniera che fosse soddisfacente per tutti. C’erano ovviamente anche stati che preferivano non partecipare. In particolare, quelli del blocco sovietico, anche per un’incompatibilità di fondo tra il funzionamento dei mercati e l’economia pianificata; e la Cina, un gigante dormiente, che all’epoca interessava poco agli altri attori globali e rimaneva a sua volta focalizzato sul proprio sviluppo interno. 

Questa era dunque la globalizzazione nata dopo la seconda guerra mondiale, che ha continuato a svilupparsi nella medesima direzione anche quando il blocco sovietico si è dissolto e le economie pianificate sono diventate economie di mercato, entrando man mano nell’Omc. Al contempo, il dormiente gigante cinese si è risvegliato e ha cominciato a seguire una traiettoria di sviluppo basata su un’economia che è capitalistica, ma controllata dal Partito comunista, e di un’attiva partecipazione alle organizzazioni internazionali. Risale all’inizio del secolo, più precisamente al 2001, il momento di alto valore simbolico in cui la Cina è entrata a far parte dell’Omc. 

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La dialettica Usa-Cina

È da quel momento che le cose hanno cominciato a cambiare. Uno dei principi dell’equilibrio multilaterale è quello per cui gli stati non possono agire in modo isolato; non possono cioè prendere iniziative unilaterali di aumento dei propri dazi, né possono decidere di ridurli solo a vantaggio di alcuni paesi amici. Vige cioè un principio di non discriminazione, in virtù del quale, se si decide un’iniziativa nei confronti di un paese membro dell’Omc, la stessa deve applicarsi a tutti gli altri paesi membri. È il principio generale, benché se vi siano eccezioni notevoli, tra cui l’Unione europea con il suo mercato unico. 

Nella dialettica odierna fra Stati Uniti e Cina, da un lato si ha un libero mercato in cui gli attori sono abituati a decidere e muoversi in maniera indipendente, dall’altro un mercato regolamentato da un coordinamento centralizzato e un governo che riesce a essere molto più interventista. Anche da qui nasce il contrasto fra i due paesi. Da parte statunitense, c’è poi l’idea che la Cina faccia una concorrenza sleale sui mercati globali, riuscendo a impadronirsi, proprio grazie agli scambi commerciali internazionali, di tecnologie sviluppate in Occidente. 

La reazione che si è costruita nel tempo a Washington è quella di un protezionismo dapprima latente e poi sempre più evidente, fino a quando Donald Trump ha dichiarato una vera e propria guerra commerciale alla Cina, utilizzando come armi i dazi sulle importazioni. Durante il suo mandato, Trump ha accusato Pechino di appropriarsi delle tecnologie in modo scorretto, e ha messo in atto una risposta di tipo punitivo, volta a impedire le esportazioni fino a quando la Cina non avesse modificato il proprio regime di trasferimento tecnologico e iniziato ad acquistare più merci statunitensi. Secondo alcuni osservatori, la guerra commerciale di Trump non sarebbe altro che una risposta, magari antiquata e fuori dalle regole, a un “peccato originale” riguardante le condizioni della partecipazione della Cina nell’Omc, ritenute un po’ troppo à la carte.

L’atteggiamento degli Stati Uniti ha finito per interessare anche partner tradizionali, come l’Unione europea o il Canada, colpiti anch’essi dalle rappresaglie commerciali dell’amministrazione americana. Diventato presidente, Joe Biden ha trovato in eredità una situazione di protezionismo aggressivo e finora non si è adoperato granché per modificarla. Nel suo manifesto economico al tempo della campagna presidenziale non si parlava di dazi e ancor meno di un qualunque impegno a rimuovere quelli introdotti da Trump. 

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A distanza di più di tre anni dall’insediamento di Biden alla Casa Bianca, anche se la retorica americana nei confronti dei partner tradizionali si è ammorbidita, non si nota alcuna particolare discontinuità nella sostanza economica dei rapporti commerciali. Basti pensare all’impronta apertamente protezionista dell’Inflation Reduction Act. Emerge l’intento di ricompattare e riattivare le alleanze, in un quadro in cui gli Stati Uniti sentono forte il bisogno dei propri alleati nel confronto con la Cina. Allo stesso tempo, di fronte a eventi come l’invasione dell’Ucraina, le dinamiche economico-commerciali sembrano passare sempre più in secondo piano, diventando strumentali rispetto al piano politico. 

L’esito più probabile della trasformazione in corso non sarà però la deglobalizzazione tanto temuta (o auspicata) da molti commentatori, quanto una riglobalizzazione selettiva: una riconfigurazione dell’economia mondiale per gruppi integrati di paesi affini. Globalizzazione sì, quindi, ma solo tra amici fidati. Questo porterà inevitabilmente i paesi ad aggregarsi sotto due principali sfere di influenza – americana e cinese – in competizione per l’egemonia economica, politica e culturale. Non sarà un atterraggio morbido: molti paesi, anche nell’Unione europea, non vogliono né possono scegliere nettamente uno schieramento, e ciò sarà origine di frizioni e incomprensioni. 

* Questo articolo riprende le idee del libro Riglobalizzazione. Dall’interdipendenza tra paesi a nuove coalizioni economiche, Egea, Milano 2022; e alcuni contenuti di un’intervista rilasciata a Pandora Rivista in occasione di Dialoghi di Pandora Rivista – Festival 2022 “Democrazia in crisi? Efficacia, fragilità, spiragli”.

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  1. Savino

    Da 3-4 decenni si è calcificato e consolidato un metodo neoliberista e post guerra fredda che, ormai, fa acqua da tutte le parti e non è più adeguato ai tempi, non producendo alcuna innovazione almeno dalla fine degli anni ’80. Pare chiaro ed evidente che ci voglia un nuovo ordine mondiale, che bisogna schierarsi in esso e che in questi ambiti debba ri-prevalere la politica sull’economia ed il suo significato in senso direi umanista, nei rapporti con la storia, con la geografia, con i popoli e con i territori, in un passaggio dal business e dai parametri di bilancio alla negoziazione vera ed al compromesso effettivo, che quindi tenga presente degli stati di bisogno o necessità delle persone e dei territori su cui vivono.

  2. Umberto

    La natura “democratica” del mondo occidentale ha costretto è costringerà sempre più le elezioni a ridistribuire la ricchezza.
    La natura dei regimi autocritica come la Cina NON POTRÀ MAI accettate l’infezione democratica.
    Quindi niente più illusioni.
    La forza militare sarà l’unico deterrente allo scontro di questi due blocchi.

  3. Luca Salvatici

    La riglobalizzazione selettiva potrebbe essere interpretata come un’applicazione (tardiva) del principio di reciprocità da parte di USA, UE & C. nei confronti della Cina.
    Con un’interpretazione un pò più maliziosa si potrebbe dire che rappresenta il riconoscimento che un libero mercato in cui gli attori sono abituati a decidere e muoversi in maniera indipendente non riesce a competere con un mercato regolamentato da un coordinamento centralizzato e un governo che riesce a essere molto più interventista.

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