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Dalla sanità tre lezioni per l’autonomia differenziata

L’autonomia differenziata potrebbe cambiare per sempre gli equilibri tra stato e regioni, tra cittadini del nord e del sud, ma è stata preparata troppo in fretta. Riflessioni utili potrebbero arrivare dalle problematiche incontrate con la sanità.

Un salto nel buio

La fretta è cattiva consigliera, specialmente sotto le elezioni. Il disegno di legge del ministro Calderoli sull’autonomia differenziata è un’operazione colossale, capace di cambiare per sempre gli equilibri tra stato e regioni, tra cittadini del Nord e del Sud, ma non è stata preparata da nessuno studio o libro bianco, tanto che non si conoscono ancora in dettaglio le funzioni e la spesa storica dello stato da delegare, come riconosce la stessa legge di bilancio 2023 (art. 1 c. 793 L 197/22).

Un salto nel buio. Eppure, una riflessione sul passato potrebbe evitare di ripetere gli stessi errori e infilarsi in un vicolo cieco. La sanità, infatti, dal 1980 è stata il primo banco di prova del decentramento di funzioni statali alle regioni (legge 833/78) e poi del federalismo fiscale (legge 42/09). Se la storia è maestra di vita, la sanità allora dovrebbe insegnare qualcosa. Le lezioni che se ne possono trarre sono almeno tre e, forse, anche una quarta.

Definizione e quantificazione dei Lep

La prima lezione riguarda i tempi per la definizione e quantificazione dei Lep (livelli essenziali di prestazioni), chiamati Lea (livelli essenziali di assistenza) in sanità, per poter erogare a tutti i cittadini, da Nord a Sud, le “prestazioni sociali di natura fondamentale” (art. 1 del Ddl). I Lep, i costi e i finanziamenti standard delle 23 materie delegabili si dovrebbero definire entro il 2025, secondo le procedure previste dalla L 197/22 (art. 1 c. 791-804). I Lea sanitari, enunciati per la prima volta dalla L 412/91 e previsti per l’anno dopo, furono approvati 20 anni più tardi (Dpcm 29.11.2001) e dopo infinite schermaglie tra regioni e stato. Sono stati aggiornati nel 2017, ma ancora oggi non sono erogati in quantità e qualità uniformi in tutte le regioni del paese.

Il calcolo dei loro costi e dei fabbisogni standard fu formalizzato nel 2011 (Dlgs 68), ma in realtà continua a basarsi su un valore medio per abitante (altro che il costo della mitica siringa!), secondo il vecchio metodo introdotto nel lontano 1985, corretto con indici di peso dei consumi sanitari per fasce d’età, peraltro ancora fermi al 2011. Le regioni del Sud, penalizzate dal calcolo, hanno giustamente ottenuto lo scorso anno una sua parziale revisione.

Pensare di definire in soli tre anni i Lep di 23 diverse materie– dal commercio con l’estero, alla protezione civile, ai porti e aeroporti – sembra pura utopia. Per fare un altro esempio: l’elaborazione dei costi standard degli asili nido ha richiesto dieci anni.

I fondi necessari

La seconda lezione riguarda i fondi addizionali necessari per i Lep e le regole del gioco a somma zero, previste dal disegno di legge Calderoli. Il Ddl contiene, infatti, il divieto di nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica (art. 8), ma senza risorse aggiuntive non si possono erogare gli stessi Lep alle regioni con spesa storica troppo bassa.

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Nel 1977, prima della creazione del Servizio sanitario nazionale, la spesa pro-capite risultava sotto la media nazionale del 33 per cento in Molise, del 21 per cento in Calabria, del 15 per cento in Sicilia, mentre era superiore in Lazio del 33 per cento, in Emilia-Romagna dell’11 per cento, in Veneto del 7 per cento. Per garantire a tutti eguali diritti, il fondo sanitario dell’anno zero (1980) fu incrementato di 4,8 mila miliardi di lire, che in valori attuali equivarrebbero a 9,1 miliardi di euro. E, per inciso, quello fu l’unico anno in cui le regioni non crearono deficit.

Con l’anno zero si volle disancorare il fabbisogno regionale dalla spesa storica e a ogni regione fu assegnata una cifra pro-capite eguale, corretta con indici di bisogno sanitario, per tendere al riequilibrio in 3 anni, poi allungati a 6. Il fabbisogno standard fu quindi identificato con la spesa media nazionale, introducendo così la regola di un gioco a somma zero: le regioni storicamente superiori alla media dovevano cedere risorse alle regioni più svantaggiate. Difatti al Lazio fu ridotto lo scarto dal 33 all’11 per cento e alla Calabria da -21 a -12 per cento. La conseguenza fu che le regioni del Sud trovarono facile alzare la loro spesa, mentre quelle del Centro e del Nord-Est quasi impossibile comprimere i costi fissi del personale e degli ospedali. Seguirono trent’anni di continui deficit e di ripetuti interventi di ripiano dello stato (24 leggi e 87 miliardi di euro), finché nel 2007 si introdusse il principio di addebitare i disavanzi alle sole regioni responsabili, sottoponendole ai piani di rientro. Paradossalmente, furono proprio sette regioni meridionali, che spendevano oltre i limiti di budget, a doversi sottoporre ai piani di rientro.

La storia della sanità insegna che se i) la situazione di partenza è molto sperequata tra le regioni, ii) si deve intervenire a invarianza di finanziamenti e iii) tutte le regioni devono godere di Lep minimi o medi o comunque definiti, è giocoforza che il costo standard avvantaggi alcune regioni e ne penalizzi altre. Un esempio con due sole regioni: la spesa storica nazionale per la funzione y è di 100, la regione A spende 60 (2q•30) e la regione B 40 (1q•40), se si fissa il costo standard del Lep y alla media nazionale di 50 (1,5q•33,3) e il fondo totale rimane invariato a 100, la regione A perderà 10 e la B guadagnerà 10. Lo stallo in cui si trova il finanziamento delle funzioni fondamentali dei comuni, voluto dalla legge 42/09 (per esempio, i Lep degli asili nido), deriva proprio dal vincolo di invarianza della spesa e dalla difficoltà di definire uno standard accettabile per tutti. E così sarà per le 23 materie e funzioni da decentrare. Non esistono riforme a costo zero.

La diversa capacità fiscale

La terza lezione riguarda la diversissima capacità fiscale delle regioni e lo sforzo necessario per fronteggiare i deficit o concedere Lea aggiuntivi. Con la riforma fiscale del 1997 le regioni godono di tributi regionalizzati – in particolare l’Irap e l’addizionale Irpef – che possono variare e modulare entro limiti fissati dallo stato. Essendo il sistema produttivo e l’occupazione molto diversi da regione a regione, per cause storiche e sociali, anche il gettito tributario è molto variegato. Ad esempio, 1 punto percentuale di addizionale Irpef produce un gettito in Lombardia, nel 2021, di poco meno di 1.700 milioni, in Veneto di 730, in Emilia-Romagna di 710, mentre in Molise soli di 38 milioni, in Basilicata di 58, in Abruzzo di 155, in Calabria di 170 (nostri calcoli su dati del Ministero dell’Economia e Finanze). Il gettito medio per abitante è di 170 euro in Lombardia e di 150 in Veneto, contro uno di 92 euro in Campania e Calabria. Senza contare che alcune regioni applicano già l’aliquota massima del 3,33 per cento. Anche la compartecipazione al gettito Iva, se sarà allargata ai 23 Lep delegati (art. 5), è già pregiudicata dalla sanità, perché oggi sette regioni del Sud ricevono fondi perequativi da quelle del Nord, per un ammontare di 5-6 miliardi all’anno. Con l’autonomia differenziata sarà quindi molto facile per le regioni più ricche del Centro-Nord erogare migliori servizi, stipendi più elevati, Lep più generosi – aumentando anche solo dello 0,5 per cento l’addizionale Irpef –, mentre sarà duro per quelle del Sud garantire persino lo standard di legge. È prevedibile una divaricazione tra regioni più ricche e regioni più povere, che andrà a lacerare l’unità nazionale e a creare tensioni tra i cittadini del Sud e del Nord.

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Il Ddl non affronta neanche il tema dei possibili deficit regionali relativi alle funzioni delegate, perché teoricamente non si dovrebbero verificare (art. 5). Ma è bene pensarci per tempo. Nonostante la legge 311/04 ponesse i disavanzi a carico delle regioni responsabili del dissesto, tra il 2007 e il 2019 si sono creati ancora 27,8 miliardi di debiti, che le regioni hanno coperto e stanno coprendo con maggiori imposte e tagli alla spesa. La finanza di molte regioni, però, non saprebbe sostenere nuovi sforzi fiscali; solo le regioni più forti potrebbero farlo.

L’autonomia differenziata si fonda sulla scommessa che le regioni sapranno gestire meglio dello stato centrale le 23 materie delegate. Per la sanità non esiste una prova che confuti l’ipotesi, ma i problemi appena elencati suonano come monito. Le riforme non si fanno solo perché scritte nel programma elettorale di chi ha vinto, ma perché servono a migliorare il benessere almeno di alcuni individui o regioni, senza peggiorare quello di altri, come insegnava Vilfredo Pareto.

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Quanto è difficile “completare” le riforme di Basilea

  1. Luigi Ruscello

    Chiarissimo Professore, per quel nulla che può contare, mi permetto esprimere il mio dissenso al Suo intervento mediante il testo di un post sulla mia pagina facebook:

    «A PROPOSITO DI AUTONOMIA DIFFERENZIATA E DI DISINFORMAZIONE

    La vogliamo smettere, noi meridionali, con questo piagnisteo contro l’autonomia differenziata che spaccherebbe un paese già spaccato?

    Lo vogliamo capire che la Lega non c’entra niente, ma sta solo approfittando dell’immenso regalo fattole dalla cosiddetta “sinistra”?

    Perdonate la presunzione, ma Vi riepilogo quanto accaduto, e sono fatti:

    – La legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 recante «Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione» è stata votata dai seguenti partiti: DS, PPI, Misto, Verdi-U, UDEUR.
    – Con tale legge, dovuta al fatto che anche noi meridionali, nonostante il Mezzogiorno fosse cancellato dalla Costituzione più bella del mondo, abbiamo contribuito votando SI al referendum, è stato inserito il comma 3 all’articolo 116, che così recita: «Ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, concernenti le materie di cui al terzo comma dell’articolo 117 e le materie indicate dal secondo comma del medesimo articolo alle lettere l), limitatamente all’organizzazione della giustizia di pace, n) e s), possono essere attribuite ad altre regioni, con legge dello Stato, su iniziativa della regione interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei princìpi di cui all’articolo 119. La legge è approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti sulla base di intesa fra lo Stato e la Regione interessata»
    – Il governo Letta, con la legge 27 dicembre 2013, n. 147 Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge di stabilità 2014), all’Art. 1, comma 571 ha stabilito che il Governo è obbligato a prendere in considerazione le richieste di autonomia presentate dalle regioni: «571. Anche ai fini di coordinamento della finanza pubblica, il Governo si attiva sulle iniziative delle regioni presentate al Presidente del Consiglio dei ministri e al Ministro per gli affari regionali ai fini dell’intesa ai sensi dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione nel termine di sessanta giorni dal ricevimento. La disposizione del primo periodo si applica anche alle iniziative presentate prima della data di entrata in vigore della presente legge in applicazione del principio di continuità degli organi e delle funzioni. In tal caso, il termine di cui al primo periodo decorre dalla data di entrata in vigore della presente legge.»
    – Il 28 febbraio 2018 il governo Gentiloni, senza che il Parlamento esprimesse alcun parere, ha addirittura firmato tre pre-intese con Lombardia, Veneto e Emilia Romagna, il cui articolo 4, relativo alle risorse, cioè ai “soldi”, è identico (Bonaccini e il PD fanno gli indiani).
    – Vogliamo renderci conto che una legge ordinaria, quale è il ddl approvato dal CdM del 1° febbraio 2023, ma che in precedenza, e senza seguito, era già stata predisposto dall’allora ministro Boccia, non può assolutamente intervenire su una legge “rinforzata” quale è quella che recepisce le diverse intese?

    Come si fa, se non in malafede, ad accusare la Lega, che io peraltro aborro?

    Come stanno le cose, se in Parlamento si formasse una maggioranza assoluta che approva la legge rinforzata, non ci sarebbe nulla da fare.

    Tale legge, però, deve rispettare numerose prescrizioni, derivanti dalla Costituzione e dalla legislazione ordinaria, che non sono poche e facili da soddisfare.

    L’unica soluzione dirimente è quella proposta dal Prof. Villone, cioè di variare gli articoli 116 e 117 della Costituzione. A tal fine, infatti, ha lanciato una raccolta firme per la proposizione di una legge popolare. Non mi sembra, però, che noi lagnosi meridionali stiamo firmando in massa (io l’ho già fatto).

    Un’altra soluzione potrebbe essere quella secondo cui tutte le quindici regioni a statuto ordinario deliberassero l’atto d’iniziativa relativo all’attribuzione di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia e lo presentassero.

    Perché almeno i Presidenti delle regioni meridionali non lo fanno?

    Ai posteri l’ardua sentenza.»

  2. .Scaccabarozzi Umberto

    Scusate ma a me ricorda tanto il “Federalismo a regime in 9 anni” e c’era sempre lo stesso ministro Roberto Calderoli! 19 /12/2008 A proposito:è stata mai avviata la politica premiale per le unioni e fusioni di comuni ? Sono mai state applicate le sanzioni per gli amministratori che non rispettano i vincoli di bilancio ? Gilberto Muraro http://www.lavoce.info del 19.12.2008.U. Scaccabarozzi

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