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Paradossi della politica migratoria italiana

La politica migratoria italiana non ha finora risposto agli interessi economici e demografici del nostro paese. Si dovrebbe abbandonare l’approccio ideologico e affrontare la questione in modo pragmatico. Ora, alcuni segnali fanno ben sperare.

I lavoratori che mancano

Gli ultimi dati Istat evidenziano una situazione demografica italiana sempre più allarmante, con il minimo storico di nascite (393 mila) e con un saldo naturale (differenza tra nati e morti) negativo per 320 mila unità. La popolazione italiana sta inesorabilmente diminuendo e, al 1° gennaio 2023, è scesa sotto la soglia dei 59 milioni.

Le misure per promuovere la natalità sono più che mai necessarie, ma richiedono inevitabilmente tempi molto lunghi. Nel frattempo, bisognerebbe ammettere di aver bisogno dell’immigrazione e riuscire a gestire il fenomeno in modo da massimizzarne i benefici (demografici, economici e fiscali). Attualmente, la politica migratoria italiana mostra due facce contrapposte: da un lato si cercano disperatamente lavoratori, contingentando però il loro ingresso, mentre dall’altro lato abbiamo decine di migliaia di persone che rischiano la vita per entrare (irregolarmente) e che vorremmo rimpatriare, senza riuscirci.

Dal lato della richiesta di manodopera non comunitaria, il “click day” celebrato lo scorso 27 marzo ha visto oltre 250 mila domande presentate dagli imprenditori italiani, il triplo rispetto agli 82 mila ingressi consentiti dal decreto flussi per il 2023.

Nel decreto è previsto che gli esclusi possano avere un accesso prioritario per il prossimo anno, ma questo stride con le esigenze delle imprese, che hanno bisogno di manodopera hic et nunc. Per questo, le parti sociali hanno richiesto l’emanazione di un nuovo decreto flussi che possa assorbire l’eccedenza di domande già presentate, riducendo quanto più possibile gli ulteriori adempimenti a carico dei datori di lavoro.

Il meccanismo del decreto flussi, istituito dalla legge Turco-Napolitano (1998) e consolidato dalla Bossi-Fini (2002), ha alcuni limiti ben noti:

  • la domanda di ingresso viene fatta da un datore di lavoro che non ha mai visto né conosciuto il lavoratore. Per questo, molti analisti sostengono che i beneficiari siano già presenti in Italia, rendendo la procedura una “sanatoria” mascherata.
  • L’unico criterio di selezione è quello cronologico di presentazione delle domande, senza alcuna valutazione nel merito dei profili e delle competenze.
  • Nonostante le diverse misure di snellimento della procedura adottate negli ultimi due anni, il meccanismo rimane complesso e non sempre in linea con le esigenze delle aziende, soprattutto per le tempistiche di arrivo dei lavoratori (basti pensare agli stagionali).
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In generale, poi, si tratta di un impianto che risale a vent’anni fa, un periodo molto diverso rispetto ad oggi dal punto di vista della storia migratoria: basti pensare che nel 2002 gli stranieri residenti erano 1,3 milioni (2,4 per cento della popolazione), mentre oggi sono 5 milioni (8,6 per cento).

Lo stato di emergenza

Sul fronte degli sbarchi, il governo ha di recente dichiarato lo stato di emergenza nazionale. In effetti, dall’inizio del 2023 si sono già registrati oltre 30 mila arrivi: di questo passo, a fine anno si dovrebbe tornare sopra la soglia dei 100 mila, come non accadeva dal 2017.

Questo ha portato a 112 mila le presenze nei centri di accoglienza, facendo riemergere i noti problemi di accettazione sul territorio.

Lo stato di emergenza consentirà di attuare misure straordinarie per decongestionare l’hotspot di Lampedusa e per realizzare nuove strutture, ma è chiaro che si tratta di provvedimenti insufficienti se non si agisce sulla riduzione delle partenze e sulla redistribuzione della responsabilità dell’accoglienza a livello europeo.

Va ricordato che altri paesi europei hanno avuto molte più richieste d’asilo dell’Italia negli ultimi anni, gestendo il fenomeno in modo ordinato. La stessa emergenza Ucraina, peraltro, ha evidenziato che la macchina dell’accoglienza italiana può funzionare: in pochi mesi abbiamo ospitato oltre 170 mila persone, senza disordini né proteste.

Infine, il governo ipotizza poi l’abolizione della protezione speciale, che oggi rappresenta la forma più utilizzata di protezione internazionale (circa il 70 per cento degli esiti positivi). L’intenzione è di ridurre la percentuale di accoglimento delle richieste d’asilo (oggi è del 32,5 per cento, contro il 40,9 per cento della media Ue), come già fatto nel 2018 dai “decreti Salvini”, poi ridimensionati nel 2020.

Senza entrare nel merito “etico” della scelta, bisogna riflettere sull’efficacia. L’inasprimento dei criteri di valutazione, senza una politica efficace sui rimpatri, avrà l’effetto indesiderato di aumentare la presenza sul territorio di persone senza documenti, facili prede di sfruttamento e reti criminali.

Oggi, solo una piccola parte delle persone a cui viene respinta la richiesta d’asilo è poi effettivamente rimpatriata: prima della flessione dovuta al Covid, i rimpatri erano circa 5 mila all’anno. Dal 2013 al 2021, con oltre 350 mila richieste d’asilo respinte, i rimpatri sono stati poco più di 40 mila. Al netto di chi è riuscito a lasciare l’Italia aggirando i controlli di frontiera e di chi ha successivamente ottenuto un permesso (tramite ricorso in appello o grazie alla “sanatoria” del 2020), una buona parte è ancora sul territorio senza documenti, finendo inevitabilmente in una condizione di fragilità e precarietà. 

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Verso un approccio più pragmatico?

Per uscire dal dibattito ideologico, occorre un approccio pragmatico. In questo senso, due recenti iniziative del governo fanno ben sperare nella presa d’atto che l’immigrazione, se ben gestita e regolamentata, porti un contributo positivo a livello demografico, economico e fiscale.

Il primo episodio riguarda l’avvio, da parte del ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, di un confronto con le parti sociali per un’analisi del mercato del lavoro propedeutica alla definizione delle quote massime di ingressi di lavoratori stranieri in Italia per il triennio 2023-2025. Pur senza intervenire sui limiti strutturali del decreto flussi, il processo consentirà una migliore pianificazione degli ingressi. Anche se tali previsioni non potranno mai essere precise e non potranno mai considerare tutte le variabili e gli imprevisti, si tratta comunque di un punto di partenza.

In secondo luogo, il ministero dell’Economia e Finanze ha riconosciuto nel Documento di economia e finanza l’impatto positivo dell’immigrazione (legale), in quanto,“data la struttura demografica degli immigrati che entrano in Italia, l’effetto è significativo sulla popolazione residente in età lavorativa e quindi sull’offerta di lavoro”. Considerato che l’invecchiamento della popolazione porta a una diminuzione della popolazione attiva e a un aumento della spesa previdenziale, assistenziale e sanitaria, i due scenari alternativi (immigrazione netta + 33 per cento o -33 per cento) portano il rapporto debito-Pil a una variazione, rispetto allo scenario di riferimento, di oltre 30 punti percentuali.

L’auspicio è che il pragmatismo continui a guidare l’azione di governo, uscendo dalla logica emergenziale e affrontando le criticità ormai croniche della politica migratoria italiana.

Figura 1 – Sensitività del debito pubblico a un aumento/riduzione del flusso netto di immigrati (in percentuale del Pil)

Fonte: Elaborazioni Mef

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Foto di famiglia con Reddito di cittadinanza *

  1. Federica Degli Esposti

    Concordiamo sull’inefficacia del Sistema attuale per allocare le persone migranti… Ma questo non succede a Caso. I Decreti sicurezza di Salvininhanno creato I blocchi apposta per non fa integrate I migranti e creare IL problema.del.co flitto sociale cosi’ da poter usare questo spauracchio nelle champagne elettorali. Questo non solo e’ inefficiente ma profondamente non etico e SE vogliamo anche criminale. Non si puo’ lasciare l’etica Al di fuori di un discorso che parla di diritti umani. L’Italia con le sue politiche VA contro I diritti umani di persone che esistono, soffrono torture e ricatti in Libia e poi vengono lasciare morire in mare, chi si salva non puo’ farsi una vita o lavorare, vengono lasciato in balia di organizzazioni criminali che li schiavizzano dei campi come succede in Calabria e in Puglia o per anni restano in Centro di detenzione senza aver commesso nessun crimine. Se si continua aparlare solo di efficacia e profitto non se ne esce.

  2. Firmin

    Le stime degli effetti benefici dell’immigrazione sull’economia, e in particolare sul rapporto debito/Pil e sulla tenuta del sistema previdenziale, sono riportati da almeno una decina di anni nel DEF e in altri documenti ufficiali. Quest’anno la notizia ha fatto scalpore solo perchè questo governo ha un atteggiamento molto negativo nei confronti dell’immigrazione. Vorrei tuttavia ricordare che queste elaborazioni sono il risultato di modelli molto discutibili (CGE e DSGE), in cui qualsiasi aumento di un fattore produttivo (come il lavoro) fa aumentare più o meno nella stessa misura il Pil grazie al pregiudizio che la maggiore offerta sia sempre assorbita grazie ad un velove adeguamento dei prezzi (in questo caso un crollo dei salari). Gli stessi modelli (per gli stessi motivi) fornivano stime mirabolanti degli effetti delle riforme che hanno reso più “flessibili” i lavoratori, hanno tenuto al lavoro gli anziani e suggeriscono di tagliare i sussidi di disoccupazione. Ovviamente nessuno di questi miracoli si è realizzato, perchè il pregiudizio sull’aggiustamento dei prezzi è una pura illusione, come dimostrano un centinaio di anni di buona teoria economica. Trovo grottesco che un governo contesti i risultati di questi modelli quando incoraggiano ad accogliere più immigrati, ma poi li usi come giustificazione per “far alzare dal divano” i supposti nullafacenti che percepiscono il RdC.

  3. lorenzo

    I frutti della mancata pianificazione(l’Italia è un Paese incapace di programmare) la constatiamo giorno per giorno. Poi sotto elezioni basta mediatizzare un episodio di violenza e si va avanti altri cinque anni …

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