Il principale difetto del decreto Lavoro è una definizione di “occupabili” e “non occupabili” che si riferisce solo alla condizione familiare e anagrafica, portando a situazioni paradossali. Mentre sugli stranieri continua a prevalere il pregiudizio.
La definizione di “occupabili” e “non occupabili”
Le contraddizioni e distorsioni del cosiddetto “decreto Lavoro”, uscito ai primi di maggio e ora in discussione alle Camere, non possono passare inosservate. Cerchiamo qui di illustrarle, auspicandone la revisione durante l’iter di conversione in legge.
Anzitutto, il problema di fondo è che la tanto propagandata volontà del governo di separare “occupabili” e “non occupabili” mantenendo solo per questi ultimi una prestazione analoga al Reddito di cittadinanza si è tradotta in una distinzione del tutto illogica, che non ha nulla a che fare con il rapporto tra le persone interessate e il mondo del lavoro, ma si riferisce soltanto alla loro condizione familiare e anagrafica. Chi appartiene a un nucleo familiare ove è presente un minore, un disabile o un componente ultrasessantenne mantiene il diritto di accedere alla misura più “ricca” sia in termini economici (fino a 780 euro mensili per chi abita in affitto) sia in termini di servizi. Per tutti gli altri, anche se in condizione di povertà estrema, non vi è sostanzialmente nulla, se non un sussidio di 350 euro mensili (il “supporto per la formazione e il lavoro”) per i soli mesi di partecipazione a un corso di formazione professionale, che tra l’altro potrebbe anche non essere mai loro offerto, e per un massimo di 12 mesi complessivi. Ciò significa, per esempio, che una madre sola e del tutto priva di reddito, con un figlio diciottenne a carico non ha diritto a nulla sino a che qualcuno non le offrirà di partecipare a un corso di formazione, dopodiché percepirà solo quel minimo sussidio di partecipazione; se però il figlio ha diciassette anni potrà accedere alla misura “maggiore”. E così una persona povera senza fissa dimora sessantenne potrà percepire il sussidio (500 euro) in quanto “non occupabile”, ma se ne ha cinquantacinque no.
Non solo. I beneficiari dell’Assegno d’inclusione vengono indirizzati ai servizi sociali del loro comune, per un’analisi multidimensionale dei loro bisogni, coinvolgendo eventualmente un’équipe multidisciplinare, prima di essere indirizzati ai servizi per l’impiego che si attivano per la ricerca di una occupazione. Per i poveri definiti invece a priori come “occupabili”, in base al solo criterio dell’età e del carico di famiglia, non si prevede nulla del genere, ma soltanto l’invio ai servizi per l’impiego, come se non avessero anch’essi bisogni complessi da analizzare e risolvere. Di nuovo, il caso delle persone senza dimora dovrebbe far riflettere.
Anche per i beneficiari dell’Assegno d’inclusione, che pure mantengono un importo analogo al reddito di cittadinanza, sono previste restrizioni del tutto illogiche: decadono dal sostegno se rifiutano di accettare una qualunque offerta di lavoro a tempo indeterminato, senza soglie minime di orario e limiti di distanza dal luogo di residenza. Ciò significa che una madre sola con figli adolescenti residente in Sicilia sarebbe costretta, pena la perdita del sussidio, ad accettare un lavoro di poche ore settimanali in Lombardia o in Veneto. Sono esentati soltanto i genitori con “carichi di cura”, limitati però ai figli con meno di tre anni. Come se poi non avessero bisogno di cure assidue, per diversi anni.
La scala di equivalenza
Altre incongruenze risaltano considerando la “scala di equivalenza” che definisce il carico familiare, e quindi l’importo del beneficio. Tra gli adulti, contano solo gli ultrasessantenni, a cui spetta un moltiplicatore 0,4. Per i figli, lo stesso moltiplicatore 0,4 si applica solo ai bambini sotto i tre anni, altrimenti (e per i soli minorenni) scende a 0,15. Di conseguenza, una coppia di ultrasessantenni senza figli avrà un moltiplicatore 0,8, superiore a quello di una coppia di quarantenni con due figli con più di tre anni (0,30). Suona paradossale, per un governo che dichiara di voler sostenere la famiglia e la natalità, e suscita invece il sospetto di voler attrarre il voto degli anziani.
Gli stranieri
C’è poi il capitolo stranieri, che avrebbe meritato particolare attenzione dopo che i dati avevano già segnalato l’esclusione di moltissimi stranieri poveri dalla precedente misura. Ma nulla è accaduto per sanare gli errori passati.
È vero che la nuova misura ha incluso i titolari di protezione internazionale (già di fatto però recuperati in precedenza dall’Inps) e ridotto da dieci a cinque anni la durata della permanenza in Italia richiesta per accedere al beneficio: un passo, quest’ultimo, difficilmente evitabile dopo la procedura di infrazione avviata dalla Commissione europea e i procedimenti attualmente pendenti sul punto di fronte alla Corte costituzionale e alla Corte europea. Ma cinque anni sono ancora troppi, soprattutto per la misura “minore”, per la quale è confermato anche il requisito del permesso di soggiorno a tempo indeterminato. È evidente che i due requisiti (permesso di lungo periodo e cinque anni di residenza) stridono con la natura “minimalista” della misura, destinata a sussidiare la sola partecipazione a un corso di breve durata, volto a sottrarre le persone all’emarginazione avviandole al lavoro. Risulta inspiegabile perché un lavoratore straniero senza mezzi, ma titolare di un permesso biennale per famiglia o lavoro, che si attivi per partecipare a un corso di formazione che gli consenta di trovare o ritrovare un impiego, debba essere escluso da una modesta indennità di partecipazione.
Il pregiudizio verso gli immigrati e la volontà di escluderli il più possibile dai diritti sociali è tale da contrastare non solo con le esigenze degli interessati, ma anche con l’interesse generale della società: quello di avere più persone occupate regolarmente e meno emarginati alla deriva nelle nostre città.
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