L’indice Ipca 2022 ha un valore più alto del previsto. Un vantaggio per i lavoratori che potranno così recuperare parte del potere d’acquisto perso a causa dell’inflazione? No, se ciò allontanerà il rinnovo dei contratti collettivi scaduti o in scadenza.
Cos’è l’indice Ipca
Le stime Ipca (indice prezzi al consumo armonizzato) pubblicate dall’Istat il 7 giugno hanno causato un po’ di sorpresa tra le parti sociali. Dal 2009, sulla base di un accordo quadro sulla riforma degli assetti contrattuali, i contratti collettivi vengono rinnovati a partire da un indice previsionale costruito sulla base dell’Ipca, depurato dalla dinamica dei prezzi dei beni energetici importati (in gergo, Ipca-Nei). L’indice ha sostituito l’inflazione programmata che nel 1992 aveva rimpiazzato quel che restava della scala mobile e la sua elaborazione è demandata a un ente terzo (l’Isae prima e l’Istat poi), che dal 2009 pubblica, a giugno, una previsione per l’anno in corso più il triennio successivo e gli scostamenti tra realizzazione e previsione negli anni precedenti. Il calcolo, però, non è semplice. Chi non ha voglia di perdersi nei dettagli salti direttamente i prossimi due paragrafi.
L’indicatore Ipca-Nei non rientra tra quelli diffusi mensilmente dall’Istat con riferimento ai prezzi al consumo, mentre è disponibile l’indice Ipca al netto della componente energetica (Ipca-En). Come spiega l’Istat nella nota metodologica che accompagna la pubblicazione, “depurare l’indice Ipca della sola componente riferibile ai prodotti energetici importati comporta l’adozione di scelte che investono sia l’individuazione dei prodotti rilevanti per la depurazione, sia la determinazione di un peso da applicare alle variazioni dei prezzi dei beni individuati”.
Fino al 2021 era stato usato come indicatore di riferimento la quotazione internazionale del petrolio (media Brent/WTI). Nel 2022 al petrolio è stato aggiunto anche il gas, e per entrambi si è iniziato a usare il prezzo all’import. Da quest’anno, l’indicatore è stato ulteriormente ampliato per includere una più ampia gamma di prodotti energetici, in particolare la fornitura di energia elettrica. In secondo luogo, è necessario stimare l’elasticità di risposta dei prezzi al consumo della componente energia alla variazione dei prezzi dei beni importati, cioè di quanto aumentano i prezzi dell’energia nazionale quando aumentano quelli dell’energia importata. Questo richiede un piccolo modello econometrico e alcune assunzioni, secondo una metodologia stabilita a suo tempo dall’Isae.
La sorpresa per il 2022
Vista una variazione a consuntivo dell’indice Ipca al netto della componente energetica (Ipca-En) al 4,5 per cento, le parti sociali si aspettavano per l’Ipca-Nei 2022 la conferma di un valore intorno a 4,7 per cento, ovvero la stima diffusa l’anno scorso. E, invece, il comunicato Istat ha sorpreso con un 6,6 per cento, uno scostamento molto significativo che l’Istituto imputa all’eccezionalità del 2022. Non è la revisione della metodologia ad aver causato lo scarto tra il valore atteso e quello realizzato, che anzi sarebbe stato più ampio con i vecchi parametri, ma la procedura di calcolo dell’elasticità, che è particolarmente complessa in un anno come il 2022 in cui tutte le relazioni standard sono saltate e che espone i modelli al rischio di quella che in gergo si chiama la end of sample distortion, distorsione a fine del campione.
Le conseguenze per lavoratori e aziende
Nello scorso decennio, le previsioni erano spesso state più alte del valore realizzato, avvantaggiando i lavoratori (seppure possibile in teoria, i soldi in più non erano mai stati chiesti indietro dalle imprese). Benché inferiore all’inflazione totale, il 6,6 per il 2022 rappresenta una sorpresa positiva per i sindacati e una negativa per le imprese che avevano messo a budget cifre inferiori. Nel settore metalmeccanico, in cui è previsto un recupero automatico, già da questo giugno il salario mensile aumenterà di 123 euro invece dei 27 inizialmente previsti e degli 88 che sarebbero stati dovuti se l’Ipca-Nei fosse stato confermato al 4,7 per cento.
Le stime Istat avranno conseguenze anche per i contratti da rinnovare, che dovrebbero partire dai numeri per il 2023, sempre al 6,6 per cento. Finora i salari contrattuali italiani sono quelli che più hanno perso potere d’acquisto nei paesi europei in cui sono disponibili i dati (figura 1).
Tuttavia, queste cifre cambierebbero significativamente il quadro. In attesa di rinnovo ci sono (oltre a tutti quelli del settore pubblico) molti contratti dei servizi privati (soprattutto quello del commercio, scaduto da fine 2019). Se rinnovati, si tratterebbe di cifre tra le più alte in Europa. Un indicatore sperimentale previsionale della crescita dei salari negoziati per Austria, Francia, Germania, Grecia, Italia, Paesi Bassi e Spagna, elaborato dalla Banca centrale europea in collaborazione con le banche centrali nazionali dell’area dell’euro, mostra che i contratti collettivi stipulati nel corso del 2022 hanno generalmente previsto un aumento del 4,7 per cento per il 2023, rispetto al 4,4 per cento del 2022. Al di fuori dell’area dell’euro, in Danimarca, a febbraio è stato raggiunto un accordo nell’industria che prevede un aumento del 3,5 per cento nel 2023 e del 3,4 per cento nel 2024. In Norvegia, dopo quattro giorni di sciopero, è stato raggiunto un accordo per un aumento del 5,2 per cento per i settori che fissano il riferimento generale (industria esportatrice e manifatturiera). In Svezia, i sindacati dell’industria e i datori di lavoro hanno concordato nuovi contratti collettivi per due anni, che prevedono aumenti salariali del 4,1 per cento nel primo anno e del 3,3 per cento nel secondo.
Quello che molto probabilmente succederà in Italia è un ulteriore ritardo nel rinnovo dei contratti perché le parti datoriali rifiuteranno tout court di sedersi al tavolo se il punto di partenza per il 2023 è il 6,6 per cento. Secondo gli ultimi dati Istat, in aprile i lavoratori in attesa di rinnovo nei servizi privati erano già oltre il 75 per cento del totale (figura 2), con una durata media di ritardo di 32 mesi. Nell’industria erano solo il 7 per cento, ma il rischio di un aumento potrebbe sussistere anche lì.
In conclusione, è curioso notare come le parti sociali, molto gelose della propria autonomia e generalmente renitenti nei confronti di interventi esterni circa le regole della contrattazione (che siano i criteri sulla rappresentanza oppure la definizione di un salario minimo), si siano legate mani e piedi a un indicatore il cui calcolo richiede una non piccola quota di ipotesi e scelte soggettive, oltre che potenziali problemi statistici, delegando quindi la definizione della variabile chiave di un contratto collettivo, il salario, a enti esterni. Questa scelta voleva ridurre il conflitto e, invece, ha portato a un aumento dei ritardi riducendo i margini di manovra necessari a navigare in periodi di recessione, in cui servono soluzioni di buon senso e condivise, non criteri inderogabili, che vorrebbero proteggere i lavoratori e che finiscono, invece, per lasciarli del tutto scoperti.
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Savino
I sindacati devono essere meno gelosi della loro autonomia e, con trasparenza e rispetto per i lavoratori contraenti deboli, fare i loro interessi. Il costo della vita è un macigno per il lavoratore-consumatore. Il Governo deve fare di più per controllare i prezzi dei beni essenziali e occorre, con un meccanismo automatico, checchè se ne dica, rafforzare il potere d’acquisto dei redditi, aiutandolo anche con una maggiore concorrenza nell’offerta, che contribuisce ulteriormente nell’abbassare i prezzi.
Mahmoud Abdel
Con la (soprattutto paventata dagli imprenditori) carenza di lavoratori che in generale attanaglia il sistema produttivo non mi capacito dei bassissimi tassi di scioperi che accompagnano questo periodo espansivo post Covid. Occorrerebbe una indagine sociologica più che economica per capire come mai persone che guadagnano in larga parte nemmeno 2mila euro netti al mese non rivendicano una maggiore quota dei profitti che gli imprenditori del settore incamerano. Questo OLTRE il fatto che un adeguamento del contratto inferiore all’inflazione significa togliere benessere al dipendente per traferirne ancora di più all’imprenditore. Eppure le moderne tecnologie e la loro diffusione avrebbe dovuto agevolare le moltitudini nel raggiungimento di posizioni comuni da perseguire