“Opzione donna” ha rappresentato uno dei pochi strumenti di autentica flessibilità in uscita che un sistema contributivo ben disegnato dovrebbe avere. L’aver reso molto difficile l’accesso alla misura risponde solo a ragioni di contenimento della spesa.
“Opzione donna” dal 2004 a oggi
“Opzione donna” è stata introdotta nel 2004 in via sperimentale, fino al 2015. Come spesso accade in Italia, la norma è stata poi riconfermata anno per anno a partire da quanto previsto con il decreto legge 4/2019 in attesa di una sistemazione più organica riguardo al tema della flessibilità in uscita. Soprattutto nell’ultimo quinquennio lo strumento è stato utilizzato sempre più spesso da un numero crescente di lavoratrici. Con l’ultima legge di bilancio, una serie di condizioni molto stringenti per potervi accedere ne ha seriamente depotenziato il ruolo, tanto da mettere in discussione la sua stessa esistenza.
Nella sua prima versione “Opzione donna” prevedeva la possibilità di accedere al pensionamento con una combinazione di età pari ad almeno 57 anni e di contribuzione di almeno 35 anni. Una volta maturato il requisito, l’accesso al pensionamento era posticipato da una “finestra” di 12 mesi (18 mesi per le lavoratrici autonome). Le lavoratrici potevano ricorrere a questa forma di pensionamento accettando il ricalcolo contributivo di quella parte della pensione che, in base alla loro anzianità contributiva, sarebbe stata calcolata con la più generosa regola retributiva. Il ricalcolo prevedeva una procedura di imputazione dei contributi versati prima del 1995 per la definizione, assieme a quelli versati successivamente a questa data, del montante contributivo da trasformare poi in rendita. L’unica significativa modifica intervenuta negli anni successivi al 2019 è quella relativa all’età minima per accedere all’anticipo: è progressivamente cresciuta, fino ad arrivare a 60 anni a partire dal 2023.
Con l’ultima legge di bilancio, però, ai requisiti anagrafici e contributivi si aggiunge anche la necessità di trovarsi in una di queste tre condizioni: i) svolgere assistenza da almeno 6 mesi al coniuge o a un parente stretto con un handicap grave; ii) essere invalida civile almeno al 74 per cento; iii) risultare licenziata o dipendente di aziende in crisi. Secondo la relazione tecnica di accompagnamento alla legge di bilancio, il numero di donne che potranno accedere alla prestazione nel corso del 2023 si aggira intorno alle 5 mila.
La penalizzazione
La Ragioneria generale dello stato nel suo ultimo rapporto sulla spesa pensionistica stima in 180 mila le lavoratrici che hanno beneficiato di “Opzione donna”, a partire dalla sua istituzione nell’ormai lontano 2004. Nel suo ultimo rapporto di monitoraggio sulla misura, l’Inps ci informa che le domande per “Opzione donna” accolte negli ultimi quattro anni, dal 2019 al 2022, sono state 83 mila. Con una media di 21 mila pensionamenti annuali nell’ultimo quadriennio, rispetto a flussi complessivi di pensionamento di circa 220 mila unità nel medesimo periodo, “Opzione donna” è stata scelta da un numero tutt’altro che trascurabile di lavoratrici. In altri termini, i numeri segnalano che la misura è diventata sempre più appetibile e utilizzata.
La dimensione della penalizzazione sull’importo della pensione, fattore sicuramente importante nel guidare la decisione di aderire o meno, dipende da numerosi fattori. Tra questi, gioca sicuramente un ruolo importante la quota di pensione calcolata con la regola retributiva: maggiore il suo peso, più forte la penalizzazione. Con il passare degli anni e il progredire della transizione alla nuova regola di calcolo contributiva, il peso della quota retributiva – e quindi quello della penalizzazione – sono diminuiti. Anche l’anticipo al pensionamento accresce la penalizzazione: nel sistema contributivo, a differenza di quanto accade nel retributivo, l’importo della prestazione pensionistica è correlato negativamente all’età di uscita dal mercato del lavoro. In termini di disincentivo all’utilizzo di questo istituto, la variabile da tenere in considerazione è la distanza tra età legale di pensionamento ed età alla quale l’opzione può essere esercitata. Entrambe sono salite nel corso degli anni.
Un’analisi più completa delle ragioni che hanno portato alla recente accelerazione nelle adesioni richiederebbe molte più informazioni. È però evidente che con il passare del tempo gli elementi che rendevano forte la penalizzazione rispetto alla scelta retributiva si sono ridotti.
Nella tabella 1 riportiamo il valore e l’età di pensionamento medi per le donne nel loro complesso, per le pensioni di anzianità e per quelle che hanno scelto opzione donna nel corso del 2022.
Per una età di pensionamento sensibilmente inferiore, soprattutto nel settore pubblico e in quello delle gestioni autonome, il valore medio della prestazione è sensibilmente più basso solo nel caso del pubblico. Molto minori sono invece le differenze nelle prestazioni nel caso del Fondo pensioni lavoratori dipendenti e in quello delle gestioni autonome. La differenza nella prestazione media appare più chiara quando il confronto venga fatto rispetto alle sole pensioni di anzianità, che sono forme di pensionamento anticipato e quindi per natura più simili a “Opzione donna”.
“Opzione donna” ha rappresentato uno dei pochi strumenti di autentica flessibilità in uscita, così come potrebbe essere in un sistema contributivo ben congegnato, dove la possibilità di anticipare il pensionamento, all’interno di una griglia di età che assicuri l’adeguatezza delle prestazioni, non mette a repentaglio la sostenibilità finanziaria del sistema pensionistico. L’idea del ricalcolo contributivo avrebbe potuto essere estesa a platee più ampie nell’auspicio di riordinare l’insieme scoordinato di interventi che attualmente regolano la flessibilità in uscita in Italia. La decisione di rendere “Opzione donna” di fatto inattuabile sembra invece seguire finalità di cassa – il contenimento nella dinamica della spesa nel corso dei prossimi anni – più che di disegno generale del sistema pensionistico.
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Savino
Fin dall’origine il sistema previdenziale italiano è stato sbagliato. Troppa rigidità, senza modalità part-time per chi poteva ancora restare a lavoro, percependo una parte di pensione. In generale, troppo poco welfare; la pensione è stata considerata sempre una rendita e non un supporto economico alla vecchiaia, perchè agli italiani piace solo vivere di rendita, già quando sono in età attiva sul piano lavorativo, figuriamoci quando non lo sono più. Chi è stato assunto dalla metà degli anni ’90 è, in pratica, un cittadino di serie B con le formule del contributivo, anche misto, rispetto ai privilegiati del retributivo. Abbiamo così creato una società dove solo i troppo anziani sono benestanti per davvero e non credo sia stato un bene, per tutte le chiacchiere che vengono fatte sulla formazione di nuove famiglie e la natalità bassa.
Emanuele Nazzi
I contributi per la pensione vengono pagati per 43 dai lavoratori per avere una vita dignitosa quando il fisico non è più in grado di rendere come prima, chiamarla rendita sembra quasi una parolaccia.
Sono soldi che i lavoratori accantonano per sé stessi e mi pare una cosa più che positiva.
Per quello che riguarda i vari sistemi di calcolo per la pensione, certamente per la grande maggioranza era preferibile il calcolo retributivo, ma ora non c’è più, bisogna accontentarsi del misto finché dura e poi tutto contributivo.
Sono d’accordo solo sul fatto che hanno fatto scalone troppo grandi per questo passaggio che però ritengo inevitabile guardando il rapporto lavoratori pensionati.
Di buono c’è che i giovani oggi sanno a cosa vanno incontro e hanno tutto il tempo per costruirsi una rendita alternativa.
GIANPAOLO TESSARI
Potranno costruirsi una rendita complementare, ma non credo alternativa, i giovani che otterranno stipendi adeguati (es. lavoratori specializzati, medici, quadri aziendali). Coloro che viaggeranno per tutta la vita su salari da 1300-1500 euro faranno ben poco.
GIANPAOLO TESSARI
Agli italiani piace vivere di rendita? Ha dati o parla per luogo comune?
AnnaM
Si è evinto che il governo ha voluto far cassa sullo snaturamento di Opzione Donna, una vera ingiustizia nei confronti delle donne che potrebbero accedervi, pur accettando la penalizzazione del solo calcolo contributivo. Di fatto chi lo accetta, ha reale necessità, per motivi familiari di vario tipo. Questo governo è venuto meno a molte promesse fatte in campagna elettorale, promesse fatte solo per prendere voti. La cosa che più fa arrabbiare le 20000 donne rimaste al palo, è che l’importo sul quale si è fatto cassa, è praticamente pari all’importo che è servito per ripristinare i vitalizi che erano stati tagliati!