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Perché va rivalutata la ricerca finanziaria

L’attività di ricerca finanziaria offre informazioni utili alla trasparenza del mercato. Ma regole europee troppo rigide ne rendono difficile la remunerazione. Un errore da correggere, permettendo un adeguato compenso per chi produce le analisi.

Intermediari e ricerca finanziaria

La salute dei mercati dei capitali richiede, tra le altre cose, che esistano analisti e intermediari che professionalmente seguano le società formulando giudizi e valutazioni, quelli che spesso si sentono sintetizzati con le formulette “buy”, “hold” o “sell”. Senza questa attività circolano meno informazioni e ne risente la liquidità soprattutto delle Pmi quotate, che i grandi investitori non si preoccupano di seguire.

Il problema è che questa attività, in buona parte a causa di alcune regole infelici che solo oggi l’Unione europea si appresta finalmente a eliminare, non viene remunerata o viene remunerata in modo insufficiente, cosicché sempre meno operatori la svolgono. È una questione tecnica per addetti ai lavori, che però vale la pena di comprendere bene.

Per farlo occorre un passo indietro, a prima del 2009, quando vigevano un regime e alcune prassi che non funzionavano male. Ipotizziamo che un intermediario, la banca X, svolgesse un servizio di ricezione e trasmissione di ordini di acquisto e vendita in borsa, la cosiddetta “execution”, e producesse anche ricerca finanziaria su una serie di società quotate. Banca X aveva tra i suoi clienti attuali o potenziali il fondo Y, un investitore al quale distribuiva la propria ricerca spesso a costi contenuti, quando non gratuitamente, anche come legittimo strumento di marketing. Se e quando il fondo Y avesse dato alla banca X un ordine, per esempio, ad acquistare azioni della società A quotata in borsa, la banca che agiva come broker chiedeva il pagamento di una somma per l’esecuzione dello scambio: ipotizziamo 1,05 euro. La cifra comprendeva sia una componente riconducibile all’attività di execution (mettiamo, 0,85 euro), sia una parte volta a remunerare l’attività di ricerca (diciamo 0,2 euro). Era cioè consentito il “bundling” (aggregazione) dei costi di esecuzione e ricerca.

Una quindicina di anni fa, si cominciarono a manifestare dubbi sul sistema, in particolare ad avanzarli erano i regolatori europei. Il timore era che la ricerca costituisse un incentivo inappropriato per il gestore, inducendolo a scegliere di indirizzare i propri ordini a un determinato broker non in ragione della qualità dei suoi servizi di esecuzione, bensì perché apprezzava la ricerca ricevuta. Secondo questa impostazione, la ricerca veniva vista come una “regalia” dall’intermediario al gestore di fondi, che ne poteva distorcere le scelte, quasi fosse una lussuosa vacanza, offerta a condizione che lo si privilegiasse per la trasmissione degli ordini.

La preoccupazione dimostra una scarsa conoscenza di come funzionano i mercati e come sono organizzati e operano investitori istituzionali e intermediari. Ben altre sono le motivazioni per cui si scelgono gli intermediari con cui operare e le regole di tutela sostanziale dei clienti, ma anche le spinte di mercato, competitive e organizzative non sono così banalmente manipolabili.

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Le regole Consob e quelle di Mifid 2

In questo quadro, all’inizio del 2009, la Consob intervenne con una raccomandazione equilibrata, improntata alla trasparenza. Si prevedeva che l’intermediario esplicitasse all’investitore la parte di costo del servizio dovuta all’execution (0,85, restando al nostro esempio) e alla ricerca (0,2). L’investitore avrebbe poi potuto scegliere come trattarla e se addebitarla alle spese del fondo gestito che inviava l’ordine, o pagarla di tasca propria.

Con la Mifid 2, la revisione della direttiva sui servizi di investimento del 2014, si andò però oltre l’obbligo informativo, prevedendo un complesso sistema di separazione di conti sui quali dovevano essere addebitati i costi per esecuzione di ordini e ricerca, e limiti alla possibilità di distribuire gratuitamente la ricerca a clienti potenziali o attuali: il cosiddetto obbligo di “unbundling”. Si voleva così non solo rendere esplicite le componenti di costo, ma anche limitare la possibilità che i gestori addebitassero alla clientela i costi della ricerca ed evitare il (presunto) rischio che ricevere la ricerca distorcesse le scelte sugli ordini.

Il risultato è stato negativo per la produzione di ricerca, soprattutto sulle Pmi, con conseguente inaridimento della liquidità di borsa soprattutto su alcuni titoli. In Italia, ad esempio, sono rimasti pochissimi operatori che fanno ricerca, proprio perché nessuno la remunera.

Vediamo perché, con numeri del tutto realistici alla mano. Ipotizziamo che A sia un emittente medio con 500 milioni di euro di capitalizzazione, dei quali un terzo, quindi circa 170 milioni, flottante. Il flottante, in un anno, “gira” sul mercato circa una volta, ossia vi sono scambi per appunto 170 milioni. Di questi, almeno la metà appartengono alla categoria cosiddetta “low touch”, disintermediati: investitori retail che operano su piattaforme, fondi passivi e così via. Restano 85 milioni di euro di scambi. Un intermediario con una grande fetta di mercato potrebbe intercettare un 20 per cento di questi ordini, pari a 17 milioni. Una commissione di negoziazione media – compressa dalla concorrenza internazionale – potrebbe aggirarsi sui 5 basis points (= 0,05 per cento): da tutte queste negoziazioni, quindi, l’intermediario banca X otterrebbe, per un intero anno di scambi su A, circa 8.500 euro. È evidente che la cifra non consente di remunerare un analista che segua la società A.

Dopo quasi un decennio, anche la Ue si è resa conto di questi effetti collaterali dell’unbundling. In periodo di pandemia, con la cosiddetta direttiva “Quick Fix” del 2021, che voleva sostenere le società quotate e la tenuta dei mercati, si introdusse quindi una parziale deroga al divieto di bundling per gli emittenti che capitalizzano fino a un miliardo di euro. Successivamente, il Listing Act europeo – attualmente in discussione – ha ipotizzato di aumentare il limite a 10 miliardi di capitalizzazione. Questi limiti però non sono sufficienti: creano differenze, peraltro variabili, tra emittenti, costi e complicazioni amministrative, e non consentono di sviluppare pienamente la competizione nella produzione di ricerca, vera garanzia di ampia informazione e circolazione di valutazioni sui corsi azionari. I decisori politici europei stanno allora valutando una ancor più ampia liberalizzazione, come prevista in Usa (e come era da noi fino al 2014), che essenzialmente dovrebbe portare, da quanto si apprende, a un “ritorno” al regime, basato sulla trasparenza, previsto dalla Consob quasi 15 anni fa.

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Troppo poco, troppo tardi?

Tutto bene dunque? Non proprio. Se la marcia indietro della Ue segna il riconoscimento di un errore di policy, si potrebbe dire: “troppo poco, troppo tardi”.

Gli investitori, i fondi, hanno ormai separato la gestione dei costi per la ricerca e per l’esecuzione degli ordini, e quest’ultima attività deve seguire principi di best execution, quindi essenzialmente deve essere effettuata al minor costo possibile. Chi esegue gli ordini non può dunque tenere conto di una buona ricerca per giustificare la scelta di convogliare ordini presso un certo intermediario X; l’unità organizzativa dell’intermediario che paga la ricerca è diversa da quella che esegue i contratti di scambio, e quest’ultima viene dunque svilita.

Una soluzione più incisiva sarebbe smettere di considerare la ricerca come una forma di incentivo perverso dall’intermediario all’investitore. Distribuire una buona ricerca è infatti parte integrante del servizio, che ne accresce l’efficacia, e gli intermediari sono i primi ad aver interesse a costruire la loro reputazione con buona ricerca. L’investitore dovrebbe poterne tener conto come variabile del dovere di best execution, ossia come uno degli elementi da prendere in considerazione nella scelta di sedi e intermediari da utilizzare per operare. Ne conseguirebbe che un intermediario in grado di produrre buona ricerca riceverebbe, per gli ordini che intermedia, non gli 8.500 euro dell’esempio, bensì magari – in regime di piena trasparenza sulle componenti di costo – 10.500, remunerando almeno in parte la ricerca. Ciò in base naturalmente a una sempre libera scelta dell’investitore, che però sarebbe aiutato a superare i limiti attuali, se lo volesse.

Infine, si potrebbero – e dovrebbero – valutare forme di sostegno fiscale alla ricerca. Occorre comprendere che la ricerca sta all’attività sui mercati come altre attività che aumentano trasparenza informativa e formazione di opinione sulla bontà dei titoli, in un regime di concorrenza, e che questo tassello – apparentemente tecnico – può fare per la liquidità e lo spessore dei mercati più di molte altre iniziative, pur meritorie.

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  1. Savino

    Andrebbe forse più incentivata l’educazione finanziaria. Gli italiani oggi hanno una concezione economica di tipo superstizioso, giudicando bravo chi e’ stato solo fortunato e non essendo in grado di gestire tanta fortuna.

  2. Angelo

    Sinceramente penso di fare già la mia parte e non trovo interessante “valutare forme di sostegno fiscale alla ricerca finanziaria”. Che poi tradotto vuol dire che mi dovrei fare carico di una parte di tasse che questi enti non versano. Porto già la carta igienica e pago le fotocopie alla scuola di mia figlia, che non fa ricerca ma ha la colpa di frequentare una scuola elementare. Se fondi, broker, investitori, o il signor Mercato, hanno necessità di “ricerca finanziaria” forse la soluzione è che la paghino di tasca propria, personalmente ho altre priorità. Senza entrare nel merito di tutti quei segnali di “buy, sell, hold” così importanti per la trasparenza dei mercati, dati da questi enti di “ricerca finanziaria” ai tango bond, obbligazioni Parmalat o titoli Lehaman, ma queste valutazioni così importanti le lascio agli esperti.

    • Firmin

      Temo che il problema non abbia una soluzione. Se non mi sbaglio, Stigler, negli anni 70, ha dimostrato che non può esistere un mercato delle consulenze efficiente. Potremmo estendere questa conclusione alla ricerca. Il motivo è semplice: per valutare il risultato di una ricerca bisogna conoscerlo…ma una volta conosciuto non conviene più pagare per riceverlo. Quindi un utente esterno dovrebbe pagare la ricerca finanziaria sulla fiducia! Invece un’impresa può decidere di fare ricerca finanziaria ma questa non sarebbe indipendente e quindi nessuno l’acquisterebbe. Ci vorrebbero istituti pubblici che informano adeguatamente gli investitori…ma non mi sembra una soluzione politicamente praticabile.

  3. pal

    Molto interessante. Però resta che tra commissioni di gestione (spesso non trasparenti nonostante la Mifid), commissioni di trading, commissioni di performance, diritti fissi… le banche fanno bilanci straordinari e noi riceviamo ZERO sul C/C. Aggiungiamoci la tassazione (Capital Gain, tasse su cedole e dividendi), la Tobin tax, i bolli, la patrimoniale dello 0,2% (tutti questi a favore dello Stato) e il risparmiatore non guadagna nulla (se poi c’è l’inflazione addirittura perde).
    Il business è sempre stato la gestione del denaro (altrui).
    Se poi viviamo in un Paese dove la concorrenza è taboo il quadro è completo.
    Avete provato a protestare, a contrattare ? Io sì, senza alcun risultato.
    Fanno bene coloro che portano i soldi all’estero.

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