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“Gioventù bloccata” nel passaggio tra la scuola e il lavoro

Scuole e imprese non si parlano e l’orientamento è carente. Così i giovani italiani escono dalla scuola con scarse competenze e poche conoscenze su come funziona il mercato del lavoro. Da qui evidenti difficoltà di inserimento nel mondo del lavoro.

Il modello d’istruzione sequenziale

“L’Italia non dovrà mai più sfornare un laureato che a venticinque anni non ha mai fatto un lavoro, neppure il cameriere. Le multinazionali oggi assumono laureati su tre criteri: primo, chi ha chiuso l’università in tempo. Secondo, chi ha fatto l’Erasmus. Terzo, chi ha fatto stage o lavori”. Così dichiarò l’allora ministra dell’Istruzione Maria Chiara Carrozza in un’intervista a La Repubblica del 7 settembre 2013.

Eppure, esistono ancora oggi laureati che non hanno mai lavorato. Come mai?

La separazione tra la teoria e la pratica è tipica dei sistemi di istruzione sequenziali come quello italiano, che sforna giovani ricchi di conoscenze teoriche, capacità dialettiche e cultura, ma poveri di “saper fare” e competenze maggiormente legate al mondo del lavoro. Per questo, quando si chiede loro di realizzare qualcosa che non sia un discorso o un tema – fosse anche una semplice lettera commerciale – entrano in crisi e non sanno da che parte cominciare. Dovranno pertanto acquisire le competenze lavorative direttamente sul campo, appena troveranno un’occupazione.

Lo stesso vale per le università, in cui i corsi di studio sono progettati – sia nei contenuti, sia nelle modalità di insegnamento – in modo da tenere poco in considerazione le trasformazioni del mondo esterno. L’arroccarsi nella “torre d’avorio della conoscenza” da parte delle scuole italiane contribuisce a isolarle da quello che accade nel mercato del lavoro. A ciò si aggiunge una certa “inerzia culturale” da parte dei docenti, che li porta ad adattarsi allo status quo, senza provare a scalfirlo. Nella scuola italiana il tempo sembra essersi fermato non solo per quel che concerne modalità e contenuti di insegnamento, ma anche per l’organizzazione delle lezioni.

Gli ostacoli più gravi, quindi, sono quelli legati alla didattica, sia nei contenuti dei programmi che, in misura maggiore, nei modelli pedagogici. Prova ne è stata la difficoltà del decollo dell’alternanza scuola-lavoro che ha gli elementi di criticità più forti proprio nella didattica, che non ha al suo interno spazi – teorici prima che logistici – per attività che coinvolgano la dimensione pratica dei saperi.

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Scuola e imprese: un dialogo tra sordi

Al di là di esperienze come i percorsi per le competenze trasversali e per l’orientamento – o Pcto, nuova sigla che identifica l’alternanza scuola-lavoro – in generale scuole e imprese dialogano poco tra di loro.

Secondo l’indagine AlmaLaurea sul profilo dei laureati 2021, il 35,2 per cento di loro non vanta esperienze di lavoro alle spalle e il 57,1 per cento ha svolto tirocini curricolari o esperienze di lavoro riconosciute dal corso di laurea. Per quanto riguarda l’orientamento, il 56 per cento ha seguito iniziative formative di orientamento al lavoro, il 55,7 per cento ha usufruito dell’ufficio di job placement e il 52,7 per cento dei servizi di sostegno alla ricerca del lavoro.

Una ricerca di McKinsey & Company segnala che in Italia solo nel 40 per cento dei casi ci sono interazioni tra scuole e imprese (contro percentuali di Germania e Gran Bretagna superiori al 70 per cento). Nei pochi casi in cui le interazioni ci sono state, sono state giudicate utili solo dal 21 per cento delle aziende: un chiaro segnale che, anche laddove scuola e imprese si parlano, faticano a capirsi.

Alle lacune nel rapporto con le imprese, si sommano quelle nell’orientamento. McKinsey rileva che i servizi di orientamento sono ancora pochi, sia alle superiori (fanno eccezione gli istituti professionali) sia all’università (vedi tabella).

Considerata l’assenza della scuola, spesso i genitori si ritrovano a fare da supplenti degli insegnanti nell’orientamento dei loro figli. Il problema è che non possiedono né le conoscenze né le competenze per farlo e così rischiano, seppur involontariamente, di dare consigli sbagliati o comunque non adeguati all’attuale contesto.

Una modalità alternativa e più utile di orientamento per i giovani consiste nello svolgere esperienze di lavoro o tirocini. Grazie a essi, infatti, i giovani si fanno un’idea di cosa significhi praticare una certa professione e accumulano l’esperienza lavorativa che le aziende tanto cercano. Tuttavia, i tirocini sono ancora poco diffusi: li ha effettuati meno della metà degli studenti di scuola superiore e poco più della metà degli studenti universitari, sempre secondo i dati di McKinsey. Inoltre, gli stage sono di brevissima durata: meno di un mese nel 50 per cento dei casi alle scuole superiori e nel 28 per cento dei casi in università. È per questo motivo che i tirocini non fanno una grande differenza per la formazione dei giovani, e neanche per la ricerca di un impiego nei sei mesi successivi al diploma di maturità o alla laurea. Inoltre, la ricerca McKinsey ci dice che a fronte di un 73 per cento delle aziende che ritiene importante l’esperienza lavorativa, solo il 47 per cento ne riscontra un livello adeguato tra i neoassunti.

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Scuole e imprese che non si parlano o non si capiscono, orientamento carente e poche esperienze lavorative fanno sì che i giovani italiani, rispetto ai coetanei europei, escano dalla scuola con scarse competenze – e ancor meno conoscenze – su come funziona il mercato del lavoro. Il che comporta evidenti difficoltà nell’inserimento al lavoro.

Molti giovani sanno di non sapere: secondo McKinsey, solo il 43 per cento ritiene adeguato il livello di preparazione che la scuola gli ha fornito, mentre il 70 per cento delle scuole pensa di aver fornito una formazione idonea all’entrata nel mercato del lavoro. Il fatto che le scuole spesso non si rendano conto del problema (ovvero che non forniscono la preparazione giusta ai giovani) non solo ostacola la risoluzione di questa criticità, ma la perpetua nel tempo, rallentando il cambiamento.

* L’articolo è tratto dal saggio “Gioventù bloccata. Il difficile passaggio dalla scuola al lavoro in Italia”, scritto da Valentina Magri e Francesco Pastore e pubblicato nel maggio 2023 da Il Sole 24 Ore. Il libro ha vinto la prima edizione del premio di saggistica economica e sociale “Il Sole 24 Ore”.

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Il Terzo settore ha una missione da preservare

  1. Savino

    Per prima cosa ,occorre mandare in quiescenza una pletora di lavoratori adulti dequalificati esistente, nel pubblico e nel privato. Si chiacchiera tanto della mancanza di lavoro per i giovani, però vedo che chi aveva posti buoni 30 o 40 anni fa se li continua a tenere stretti pur non meritandoli, sottraendoli alla pubblica fruibilità delle giovani generazioni. Questo, economicamente ed eticamente non va bene. Poi, certamente, occorre una cultura del recarsi sul posto di lavoro che oggi manca. Le aziende, dal canto loro, non possono pretendere che un laureato fresco di 24-25 anni possa avere un ampio bagaglio di esperienza: o studia o lavora, anche perchè studiare seriamente è un lavoro e non un gioco come ci vogliono far credere, anzi i contributi per gli anni di studio dovrebbero essere figurativi e non riscattabili in seguito a suon di decine di migliaia di Euro. Vedo in giro persone che non hanno mai studiato in vita loro, non hanno nè teoria nè pratica, si perdono su cose lavorative pratiche, ma continuano da decenni ad avere lauti stipendi e si continua a far finta che raggiungano obiettivi fasulli, continuando, in questo modo, a prendere in giro le giovani generazioni cui si chiede sempre l’impegno di uno scolatretto. Anche i colloqui di lavoro debbono essere fatti con maggiore serietà, oggi il rischio di cestinare il CV di talenti è altissimo.

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