Il metaverso è un luogo di lavoro per persone reali, che rischiano di vedersi negare molte tutele. La risposta è definire subito una regolazione efficace, che soddisfi le nuove istanze di protezione. Senza ripetere gli errori commessi con le piattaforme.

Problemi giuridici del metaverso

All’inizio dello scorso anno, spopolava sui giornali la notizia che Microsoft stesse investendo quasi 70 miliardi di dollari nel “metaverso”. Si trattava solo di uno dei tanti ingenti investimenti nella nuova tecnologia, che allora catturava l’immaginario collettivo benché ora scalzata dall’intelligenza artificiale generativa. Aziende tech come Google ed Epic Games, marchi come Gucci e Nike e anche rivenditori come Walmart si sono affannati per “occupare” il metaverso prima degli altri. Mark Zuckerberg ha persino deciso di rinominare il proprio gruppo “Meta” per segnalare il cambio di priorità.

Il metaverso rappresenta, prima ancora che una piattaforma, un nuovo modo di interagire con le componenti del cyberspazio – realtà aumentata, tecnologia 3D, Internet of Things, avatar personali, mercati digitali e fornitori di contenuti – per generare un’esperienza online più immersiva, immediata e coinvolgente.

Non è un mistero che il metaverso fosse stato concepito anche come una soluzione alla crisi di mezza età di alcuni vecchi social media, in sofferenza per via dello scarso interesse dei giovani utenti e dell’intenso controllo dei regolatori. Come dimostra l’investimento fatto dai “grandi del tech”, però, genera importanti scambi economici. Emblematico è l’esempio dell’acquisto, nel giugno 2021, di una borsa virtuale Gucci, indossata da un avatar, per l’equivalente di 4 mila dollari in valuta virtuale.

A livello giuridico, sorgono diverse questioni. Per esempio, chi è il proprietario di quella borsa: l’acquirente, la piattaforma o chi la “noleggia” a un cliente? Cosa succede se la piattaforma non funziona correttamente? Potrebbe un altro soggetto “rubarla”? La borsa potrebbe essere spostata da una piattaforma all’altra? E se non si potesse, si verificherebbero problemi di antitrust? Sono solo alcuni esempi della complessità giuridica che circonda gli scambi digitali.

Ad amplificare il tutto è l’incertezza su quali leggi si applichino nel metaverso. Sarà la legge del paese in cui ha sede la società proprietaria della piattaforma? E se invece la piattaforma ha sede in più paesi? Sarà la legge del luogo in cui hanno sede i server? E se le piattaforme fossero sostenute da blockchain e fossero disperse su scala globale? O forse è la legge del luogo in cui si trova il produttore virtuale del prodotto o il paese in cui ha sede il marchio di quello stesso prodotto? E perché non quello in cui risiede il cliente? Anche le transazioni più semplici possono generare questioni giuridiche aggrovigliate, incluso quando si parla di lavoro.

Lavorare nella realtà aumentata

Il metaverso avrà i suoi utenti, ma potrebbe diventare anche un luogo di lavoro per molte persone. Microsoft, ad esempio, ha provveduto a combinare “le capacità di realtà mista di Microsoft Mesh” – che “permette alle persone in luoghi fisici diversi di collaborare e di condividere esperienze olografiche” – con i più noti “strumenti di produttività di Microsoft Teams, dove le persone possono partecipare a riunioni virtuali, chattare, collaborare su documenti condivisi e altro ancora”. Poche settimane fa, Apple ha presentato i suoi occhiali per la realtà aumentata, pensati per ambienti ibridi. L’obiettivo è la creazione di una realtà lavorativa più interattiva e integrata per chi lavora da remoto.

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Non mancano i problemi, tuttavia. Un primo rischio è che i lavoratori da remoto siano sempre più esposti a forme invasive e implacabili di sorveglianza e gestione algoritmica – una tendenza già presente –, così come a dinamiche tossiche e oppressive tipiche degli uffici che troveranno un alleato nei dispositivi indossabili, come i visori. Il potenziale aumento dei rischi psicosociali non può essere sottovalutato, anche perché le tecnologie del metaverso si prestano all’emersione di nuove forme di cyberbullismo sul lavoro.

Se gli “uffici nel metaverso” dovessero diffondersi in concreto, poi, aumenterebbe il rischio di “distanziamento contrattuale” per i lavoratori coinvolti. Se le imprese fossero in grado di avere uffici virtuali che imitano quelli fisici e, allo stesso tempo, avessero accesso a una forza lavoro globale di lavoratori da remoto, crescerebbe vertiginosamente la capacità di esternalizzare il lavoro cognitivo verso paesi con stipendi molto più bassi e protezione del lavoro più debole – e di qualificare impropriamente come freelance lavoratori che in realtà sono dipendenti.

L’economia delle piattaforme, nonostante non se la passi bene dopo il picco della pandemia, funge da modello. In questo contesto, le imprese hanno già prosperato a spese dei lavoratori e in barba alla concorrenza leale, combinando sorveglianza tecnologica intensificata, finto lavoro autonomo ed esternalizzazione verso il Sud del mondo, approfittando delle retribuzioni più basse e dell’assenza di protezioni. Tra l’altro, l’impatto non si limita al lavoro da remoto. Perché lasciare casa per andare in un negozio e chiedere consigli su un prodotto, se si può benissimo parlare con commesso attraverso una chatbot e completare l’acquisto online?

In più, non è del tutto chiaro quali tutele lavoristiche si applicheranno a queste attività. Quelle dei paesi in cui si trovano le piattaforme? Quelle in cui si trova il datore di lavoro? O quelle del luogo in cui si trovano i lavoratori? E come si fa a costruire solidarietà e a promuovere l’azione collettiva quando la forza lavoro dispersa a livello globale può “incontrarsi” solo attraverso le piattaforme?

Bisogna inoltre aggiungere il rischio che questi lavoratori siano erroneamente qualificati come autonomi, attraverso una varietà di stratagemmi legali e grazie alla spregiudicata creatività delle aziende del “big tech”. In più, il fatto che i pagamenti potrebbero essere in criptovaluta probabilmente verrà utilizzato per rendere più complessa l’identificazione del corretto regime giuridico da applicare ai lavoratori. La quasi inesistente protezione del lavoro per i crowdworkers rende le preoccupazioni molto concrete.

Creatori di contenuti

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Molti professionisti lavorano per dare forma al metaverso. Tra questi ci sono ricercatori, specialisti di cybersecurity, programmatori di sistemi, costruttori di hardware, influencers, esperti di marketing e sviluppatori di business. Saranno fondamentali anche i creativi che progetteranno e lanceranno gli eventi sul metaverso, ideeranno i contenuti e quelli che si occuperanno dello scambio di beni e servizi al suo “interno”.

Siamo al cospetto di una complessa questione di lavoro, perché molti content creators sono fortemente dipendenti dalle piattaforme in cui condividono i loro contenuti: sono infatti queste ultime a decidere come gli algoritmi classificano i contenuti e li rendono visibili, come vengono monetizzati e quali potrebbero portare alla disattivazione del loro account per violazione delle regole della piattaforma stessa. I creatori di contenuti raramente hanno voce in capitolo su tutto questo.

Finora, i tentativi di dare una voce collettiva a questi lavoratori non hanno avuto successo, anche quando erano sostenuti da sindacati molto forti, come ad esempio i content creators di YouTube. Anche se hanno un contratto di lavoro, come a volte accade nel settore dei videogiochi, le condizioni di lavoro spesso rimangono dure.

Il metaverso apre certamente nuove prospettive per i creatori di contenuti, ma aumenta il rischio di sfruttamento. Il crescente numero di persone già oggi coinvolte merita un’attenzione più decisa da parte di regolatori, sindacati e autorità pubbliche. Contrariamente all’illusione di un mondo virtuale decentralizzato, il metaverso potrebbe portare a una più forte concentrazione del potere di alcune aziende private.

Imparare la lezione

Potrebbe essere utile imparare dal passato, evitando di aspettare che i problemi si ossifichino. La reazione alle sfide del lavoro tramite piattaforme è stata molto lenta: quelle di lavoro digitali hanno approfittato del lungo momento in cui gli osservatori hanno trattenuto il fiato chiedendosi: “Ma questo sarà lavoro vero e proprio?” oppure “È sicuro che i lavoratori della gig-economy meritino tutele?”. Ci sono voluti anni per stabilire l’ovvio. Sono intervenuti i giudici, le forze sociali e di recente la Commissione europea.

Questa volta, si potrebbe almeno provare a saltare la fase di ubriacatura affermando nettamente: “Ovviamente si tratta di lavoro e ogni lavoro merita una protezione, non importa dove si svolge o come viene pagato”. Il metaverso non dovrebbe diventare un’altra occasione per eludere regole e tutele. È fondamentale integrare i nuovi modelli con la normativa esistente e perfezionare la legislazione affinché sia in grado di soddisfare le nuove istanze di protezione.

* L’articolo, in inglese, è stato inizialmente pubblicato su Social Europe.

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