Nella legge delega di riforma fiscale sono due i punti particolarmente critici in tema di tassazione societaria: la struttura dell’Ires e la sostituzione dell’Irap con una sovraimposta all’Ires. Il rischio di un aggravio per le società di capitali.
Come cambia l’Ires
Nel capitolo sulla tassazione societaria la legge delega di riforma fiscale mostra le maggiori criticità su due punti: la struttura dell’Ires (articolo 6) e la sostituzione dell’Irap con una sovraimposta all’Ires (articolo 8). Uno dei cavalli di battaglia del Ddl delega presentato dal governo era l’ipotesi di una aliquota ridotta (si parlava del 15 per cento) per le società “virtuose”, che avessero impiegato gli utili accantonati per finanziare nuovi investimenti, con particolare riferimento a quelli “qualificati” (la delega non specifica ulteriormente), nuova occupazione o schemi stabili di partecipazione dei dipendenti agli utili. La formulazione ricorda un analogo e fallimentare esperimento del governo giallo-verde nel 2019. Quel sistema si rivelò subito di difficile applicazione, tanto da essere prima modificato e poi abolito. Il nuovo è anche più complesso, perché prevede che l’agevolazione sia retrocessa se entro due anni non si realizzano i nuovi investimenti e la nuova occupazione o gli utili sono distribuiti. È inoltre di difficile coordinamento con altre disposizioni in tema di reddito societario. Inoltre, un sistema a doppia aliquota per la tassazione delle società non ha corrispettivi nella Ue e si muove in contrasto con gli orientamenti comunitari. Scoraggiando la distribuzione di utili, scoraggia la quotazione in borsa e il finanziamento con capitale di rischio. Favorisce invece le società a ristretta base azionaria. A seguito delle perplessità emerse anche nelle audizioni alla Camera (in particolare Assonime, Banca d’Italia e Confindustria), la delega è stata emendata e al complesso meccanismo di doppia aliquota è stata affiancata, come alternativa, la possibilità di fruire di incentivi fiscali agli investimenti, “anche attraverso il potenziamento dell’ammortamento”, o per nuove assunzioni, “anche attraverso la possibile maggiorazione della deducibilità dei costi relativi”. Quindi, maggiorando le deduzioni dall’imponibile anziché riducendo l’aliquota. L’alternativa proposta appare più semplice e presumibilmente le società la preferiranno. Tra i due tipi di agevolazione si potrebbe trovare un’equivalenza quantitativa, nel senso di garantire lo stesso beneficio fiscale a parità di nuovi investimenti o nuova occupazione (sempreché il governo non intenda favorire l’una o l’altra agevolazione). Ma resterebbe comunque una differenza importante: con l’aliquota agevolata, investimenti e occupazione sono incentivati solo se finanziati con utili trattenuti presso l’impresa, mentre le deduzioni maggiorate sono fruibili senza vincoli di finanziamento (quindi, anche aumentando il capitale sociale o il debito). Entrambi gli approcci mostrano criticità, soprattutto se l’obiettivo è quello dichiarato dal governo, anche nella relazione al Ddl delega, di “favorire la patrimonializzazione delle imprese, riducendo lo squilibrio esistente a danno del capitale di rischio rispetto a quello di debito”. Infatti, il primo sistema (doppia aliquota) esclude dall’agevolazione il caso di finanziamento con nuovi apporti di capitale; il secondo (deducibilità addizionale di quota dei nuovi investimenti e occupazione) include anche il finanziamento con debito. Ai fini dell’obiettivo dichiarato dal governo, e ampiamente condivisibile, di agevolare la patrimonializzazione delle imprese e ridurre lo squilibrio a favore del debito, sarebbe stato preferibile potenziare l’Ace (da noi, Aiuto per la crescita economica, ma internazionalmente Allowance for Corporate Equity), che ha proprio questi scopi, è già presente nel nostro ordinamento e non discrimina per forma giuridica: anche le società di persone e le imprese individuali possono usufruirne, mentre gli incentivi indicati della delega riguardano solo le società di capitali. Inoltre, sistemi tipo l’Ace sono in vigore in altri paesi e sono punto di riferimento anche in recenti proposte della Commissione europea. La delega non menziona l’Ace, ma preoccupa che il viceministro Maurizio Leo in più occasioni abbia affermato di volerla abolire. Sarebbe un grave errore, e in contraddizione con gli obiettivi dichiarati dal governo, in quanto la sua abolizione indebolirebbe la patrimonializzazione delle imprese. Tanto più che la delega prevede anche di ridurre, nell’ambito della flessibilità consentita dalle norme comunitarie, i vincoli esistenti per la deducibilità degli interessi passivi, contribuendo a favorire l’indebitamento. L’Ace, diversamente da quanto spesso si ritiene, non è un “incentivo”, ma un modello strutturale di tassazione che, se opportunamente congegnato e soprattutto se permanente nell’ordinamento, ha buone caratteristiche di neutralità, rispetto alle scelte di investimento, di finanziamento e della forma organizzativa con cui svolgere attività di impresa. Non a caso, non è tra le agevolazioni elencate dalla Commissione ministeriale che ha il compito di censire le spese fiscali. I nuovi incentivi previsti nella delega (nella forma di aliquota ridotta sugli utili accantonati o di extra deducibilità di nuovi investimenti e occupazione) sono pienamente compatibili con il mantenimento dell’Ace. I decreti delegati dovranno anche chiarire come i nuovi incentivi si coordineranno con quelli già esistenti, di cui il governo ha annunciato un riordino. Si sommeranno? Li sostituiranno? Si razionalizzeranno i vari interventi? Quali saranno disponibili solo per le società di capitali e quali anche per le società di persone e le ditte individuali? Su questi importanti profili sarà anche necessario un attento coordinamento, che per ora pare assente, tra la delega fiscale e il disegno di legge delega di riforma degli incentivi alle imprese, che sta completando il suo iter parlamentare.
La sostituzione dell’Irap
La delega prevede la graduale abolizione dell’Irap, con priorità per le società di persone e gli studi associati di professionisti, e la sua sostituzione con una nuova sovrimposta che graverà sugli utili delle società di capitali, così come definiti a fini Ires, con l’esclusione però del riporto delle perdite (norme particolari verranno prese per gli enti non commerciali). Se le società di capitali dovessero farsi carico (la delega su questo non è chiara) anche della quota attualmente a carico delle società di persone e delle associazioni tra professionisti (circa 2 miliardi su 15 di gettito Irap dal settore privato) vi sarebbe per loro un aggravio netto. Anche in questo caso, a differenza dell’intenzione dichiarata di incentivare la patrimonializzazione delle imprese, si va nella direzione opposta, perché la differenza fra la base imponibile dell’attuale Irap e quella della futura sovraimposta consiste soprattutto negli interessi, che nella vecchia Irap venivano tassati, mentre la nuova sovraimposta graverà solo sugli utili (al lordo delle perdite pregresse). La restrizione della platea dei soggetti passivi e la riduzione della base imponibile potrebbero far salire l’aliquota effettiva sugli utili di impresa al 32-34 per cento, livelli che non trovano paragoni nei principali paesi.
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Stefano
La delega del Governo, dietro il ventilato obiettivo di favorire la patrimonializzazione delle imprese, sembra piuttosto mirare ad uno scambio tra riduzione della aliquota dell’imposta sui redditi delle società di capitali (fino al 15-20%) e loro rinuncia volontaria alla fruizione di agevolazioni fiscali su determinati beni (materiali o immateriali lo definiranno i futuri decreti).
Di fatto una rievocazione dello scambio operato nel 2008 quando l’IRES fu ridotta (per reggere la competizione fiscale con la Germania) al prezzo di un allargamento della base imponibile.
La differenza rispetto al citato intervento è che allora la scelta fu operata dal Governo, mentre qui viene lasciata alla valutazione discrezionale delle singole imprese.
Sulla convenienza fiscale del nuovo regime dipenderà molto dalle agevolazioni cui le imprese dovranno rinunciare per fruire dell’IRES ridotta (nonché di quelle che potranno continuare a beneficiare anche nel nuovo regime).
Nessuno può dire ad oggi se le imprese vorranno accettare tale scommessa o meno.
Un peso rilevante lo rivestirà la scelta sul regime di uscita per coloro che non raggiungeranno gli obiettivi incrementali. Appare logico che non troveranno applicazioni sanzioni ed interessi su tali soggetti in considerazione del difficile contesto economico e sociale esterno che potrebbe rendere inattuabili determinate politiche aziendali di investimento.
Sull’IRAP, invece, si continua a navigare a vista per inseguire richieste particolari senza che si sia aperto un reale tavolo di lavoro sulle funzioni che sono attribuite alle Regioni ed Enti locali (sanità pubblica? assistenza sociale? sostegni alla famiglia?) e sulle modalità di finanziamento.