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Le iniquità del metodo contributivo

Nel 1996 la riforma Dini ha introdotto il metodo di calcolo contributivo nel nostro sistema pensionistico. Dopo oltre 25 anni, il periodo di transizione non è completo né sono state sanate alcune iniquità, in particolare sui coefficienti di trasformazione.

Giovani e anziani, uomini e donne  

La riforma Dini delle pensioni ha compiuto ventisette anni il primo gennaio di quest’anno. Tuttavia, almeno fino alla riforma Monti-Fornero del 2012, la sua diffusione fu sostanzialmente nulla, tanto che, ancora nel 2011, si stimava che oltre il 90 per cento dei pensionati lo era in virtù delle vecchie regole. La lentezza del periodo di transizione, che prevedeva la totale esenzione (sempre almeno fino al 2012) dalle regole Dini per chi aveva già accumulato almeno 18 anni di contributi all’1/1/1996, determinò di fatto una spaccatura generazionale che avrebbe garantito, e garantirà, a parità di età di pensionamento e anni di lavoro, tassi di sostituzione molto più elevati alle generazioni più anziane e tassi di sostituzione più contenuti a quelle più giovani. Non si tratta, però, della sola iniquità del nostro sistema previdenziale. Quella più macroscopica, almeno per gli addetti ai lavori, riguarda l’unicità dei coefficienti di trasformazione. La loro funzione si spiega piuttosto semplicemente. Il metodo di calcolo contributivo collega i contributi versati (e fittiziamente capitalizzati a un tasso di crescita legato all’andamento dell’economia) all’aspettativa di vita al momento del pensionamento. La pensione annua cui un lavoratore ha diritto viene calcolata moltiplicando il montante contributivo fittizio per numeri (chiamati appunto coefficienti di trasformazione) che aumentano all’aumentare dell’età di pensionamento. Chi andrà in pensione prima avrà diritto a una pensione annua inferiore, chi lavorerà più a lungo, invece, avrà diritto a una pensione annua superiore, a parità di montante contributivo. Se questo è chiaro, allora lo sarà anche il fatto che, a parità di tutte le altre condizioni (età di pensionamento, contributi versati, tasso di capitalizzazione), una donna, che mediamente gode di aspettativa di vita più elevata, avrebbe diritto a una pensione annuale (o mensile) inferiore a quella di un uomo. È molto facile vendere politicamente l’unicità dei coefficienti di trasformazione rispetto al genere: in questo modo, una donna non sarà penalizzata dall’avere un’aspettativa di vita più lunga e anzi sarà sussidiata dagli uomini che, al contrario, dovranno accontentarsi di benefici previdenziali minori di quelli cui avrebbero diritto con un coefficiente di trasformazione specifico per genere. La riforma Dini introdusse sin dall’inizio coefficienti di trasformazione unici in relazione al genere: la scelta aveva l’obiettivo di non penalizzare ulteriormente le lavoratrici, la cui carriera è solitamente più irregolare di quella degli uomini. Ma, legittimamente, si sarebbe potuta prendere una decisione diversa.  

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Ricchi e poveri  

Se l’unicità dei coefficienti di trasformazione per genere può essere condivisibile, sorge però un’altra domanda: sono solo le donne ad avere un vantaggio sistematico in termini di aspettativa di vita? Detto in maniera più esplicita, ci sono altri gruppi di individui che avendo una aspettativa di vita più elevata sono avvantaggiati dai coefficienti di trasformazione unici? La risposta è sì. Gran parte della ricerca concorda, per esempio, sul fatto che chi ha più alti livelli di istruzione e di reddito abbia un’aspettativa di vita più elevata della media della popolazione. Una sezione dell’ultimo Rapporto Inps sulle pensioni evidenzia innanzitutto come, tra il primo e il quinto quintile di reddito coniugale (definito dall’Istituto di previdenza come somma delle “pensioni da lavoro dei soggetti che sulla base degli archivi risultano coniugati”), la differenza nell’aspettativa di vita aumenti di 1,7 anni per le donne e addirittura di 2,6 anni per gli uomini. Cosa significa? Che i lavoratori più poveri, in media e sempre a parità di altre condizioni, avranno una pensione più bassa di quella cui avrebbero avuto diritto se il coefficiente di trasformazione fosse stato legato alla classe di reddito di appartenenza. Viceversa, i lavoratori più ricchi.

In altri termini, le disparità nella longevità comportano un sussidio implicito per le categorie che vivono più a lungo, mentre rappresentano una tassa implicita sui benefici previdenziali degli individui che vivono meno. Due recenti studi aiutano a chiarire la portata di questo fenomeno. Il primo, pubblicato su Risks, stima in Italia una tassazione implicita del 10 per cento sul reddito pensionistico degli uomini a vantaggio delle donne. Nel caso dei residenti nel Mezzogiorno, invece, si stima una tassazione implicita del 2 per cento a vantaggio delle regioni del Centro-Nord. Il secondo studio, pubblicato su Demography, quantifica in circa un quarto il contributo dell’aspettativa di vita sulla disuguaglianza dei redditi pensionistici percepiti durante la propria vita in Svezia, un altro paese che utilizza il metodo di calcolo contributivo. Vista sotto questa prospettiva, naturalmente, l’unicità dei coefficienti di trasformazione assume un aspetto molto meno convincente.  

I criteri per un metodo contributivo più equo  

Un intervento da parte della politica richiede una riflessione attenta su quali siano gli obiettivi da perseguire e quali le riforme da attuare. Alcune misure volte a sanare l’iniquità del nostro sistema pensionistico già esistono, come il pensionamento anticipato per le professioni usuranti. L’agevolazione consente ai lavoratori pubblici e privati che svolgono lavori particolarmente faticosi e pesanti di accedere alla pensione anticipata con requisiti agevolati. Oggi la misura riguarda specificatamente solo la parte retributiva. A regime, cioè con una pensione totalmente o almeno prevalentemente contributiva, la legislazione dovrebbe prevedere, per esempio, l’assenza di penalizzazioni in termini di aspettativa di vita dovuta all’anticipo pensionistico. La definizione di “usurante” si basa sui danni biologici che certe occupazioni possono infliggere ai lavoratori. Tuttavia, è importante che l’inclusione nella casistica di determinate professioni sia sostenuta da precise evidenze scientifiche e non si basi unicamente su supposizioni. Per rendere il sistema contributivo più equo, si può intervenire anche negli stadi antecedenti al calcolo del reddito pensionistico. Alcuni esempi sono la differenziazione dei tassi contributivi, che possono essere sussidiati per i redditi più bassi e quindi portare a pensioni più elevate, o dell’età di pensionamento in base alla categoria socio-economica di appartenenza, con meccanismi simili a quelli utilizzati per i lavoratori usuranti. Tuttavia, la soluzione più diretta dovrebbe riguardare la riformulazione dei coefficienti di trasformazione. In questo caso, sarebbero molteplici le opzioni da prendere in considerazione. Innanzitutto, bisognerebbe decidere a quali elementi collegare la discriminazione nei coefficienti. La questione è tutt’altro che banale, poiché sono numerose le caratteristiche che influenzano la longevità di un individuo. Ad esempio, bisognerebbe decidere se collegare i coefficienti a fattori “esogeni”, quali per esempio il genere, o a fattori “endogeni”, come l’area geografica, il reddito familiare, lo stato civile o il livello di istruzione. Questi ultimi dipendono in larga parte dalle scelte individuali, e la differenziazione dei coefficienti in base a questi criteri comporterebbe effetti collaterali da tenere in conto. Inoltre, la scelta non riguarderebbe solamente quali variabili selezionare, ma anche quanti coefficienti sviluppare per ognuna di esse. Per fare un esempio, se si vogliono differenziare i coefficienti di trasformazione in base al reddito, bisogna decidere come suddividere le fasce di reddito: in quintili, in decili o in maniera più arbitraria? Ovviamente, nessuna scelta sarà perfetta, poiché qualcuno sarà sempre al di sopra o al di sotto della media della categoria di appartenenza. Il problema, quindi, rischia di essere senza soluzione. In conclusione, la differenziazione dei coefficienti di trasformazione, per quanto desiderabile in linea teorica, sarebbe caratterizzata da elevata complessità e, soprattutto, da estrema arbitrarietà rispetto alle dimensioni di differenziazioni e ai valori di riferimento. Così da non riuscire davvero a risolvere il problema e, probabilmente, nemmeno a trovare sufficiente consenso per una sua realizzazione.  

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13 commenti

  1. Savino

    Troppi fondi speciali e troppe le persone che percepiscono da oltre 40 anni

    • Roberto Ghiandoni

      Mi pare che questa cosa sia totalmente impraticabile,tante sono le variabili in gioco. Una persona per dire può fare il muratore al nord per 6/ 7,poi chi sa ,trova un impiego in un hotel in riviera per altri anni e cambiare tipo di lavoro e città per chi sa quante volte. E poi ci sono gli stili di vita che sono assolutamente individuali e non legati al censo.E quindi lasciamo stare

  2. Firmin

    Secondo me, i meriti del metodo contributivo sono largamente sopravvalutati. Per prima cosa, solo un continuo ricalcolo (abbassamento) dei coefficienti di trasformazione ne garantisce la sostenibilità finanziaria. Il secondo motivo è che tende a perpetuare le differenze di reddito accumulate (per merito o semplice fortuna) durante la vita lavorativa. La correzione in base ad una speranza di vita unica (che oltre tutto è calcolata retrospettivamente e non tramite previsioni) può addirittura peggiorare le cose, come rilevato correttamente dagli autori. Per avere un minimo di perequazione sarebbe necessaria una pensione base, uguale per tutti, incrementata in base ai contributi versati. Questo metodo risolverebbe anche il dramma delle future generazioni e dei lavoratori poveri e intermittenti, che rischiano di ricevere assegni del tutto insufficienti, che quindi dovranno essere comunque integrati con qualche sussidio. Tanto vale integrare questo sussidio nel metodo di calcolo.

  3. amadeus

    Questi numeri andrebbero rivisti. Non è solo la speranza di vita del percettore a determinare l’importo cumulato della pensione. Esiste anche la reversibilità a favore dei supersiti, che è automatica ed è parzialmente legata al reddito del percettore. Tra l’altro, visto che la quota di pensione che viene trasferita per i redditi bassi è maggiore, anche i calcoli sul trasferimento dei redditi tra pensioni più povere e quelle più ricche andrebbero rivisti. In ogni caso una eventuale modifica dei coefficienti di trasformazione sarebbe iniqua senza affrontare contestualmente il tema della reversibilità il cui costo a quel punto andrebbe personalizzato in base ai potenziali superstiti di ciascun pensionato e all’importo reversibile. Con la differenziazione dei coefficienti anche la reversibilità dovrebbe diventare una opzione a pagamento (attraverso coefficienti inferiori), anche in modo da impedire comportamenti opportunistici (come quello dell’anziano che sposa la giovane badante).

    • Katia

      Nel 1996 a mio padre malato terminale hanno fatto il calcolo della pensione con il sistema contributivo piuttosto che retributivo come era stato previsto. Son dall’inizio ci siamo battuti contro l’ inps , i caf, ecc ma non c’è stata possibilità di fargli ammettere l’errore in quanto mia madre avrebbe con il sistema retributivo percepito una pensione di reversibilità molto più alta. Visto che sono trascorsi 26 anni presumo che non ci sia più nulla da fare giusto? Possiamo far rivedere la pratica anche se già più di 10 anni fa non riusciva l’ inps a trovare il fascicolo di mio padre?

  4. Flavio

    Può darsi che vi sia qualcosa che mi sfugge ma a pare che in un sistema assicurativo, l’individualizzazione dei benefici sulla base del rischio sia sbagliata concettualmente oltreché complicata politicamente (in questo caso il “rischio” è di vivere più a lungo della media). Se vi è necessità di fare maggiore redistribuzione, si deve utilizzare il sistema fiscale.

  5. B&B

    Boeri/Perotti 30.10.21.
    ……….Un articolo della legge di bilancio sfuggito a gran parte delle cronache prevede il passaggio all’Inps della cassa previdenziale dei giornalisti dipendenti…………….

    La vicenda dell’Inpgi è un ulteriore esempio di privilegi, incivili, elargiti (nel caso specifico dal governo DRAGHI) a chi non ha pagato i contributi e quindi non merita.
    Li pretende, evidentemente, perchè ha il potere (possiede il grimaldello per scassinare) di far caricare i prori oneri sugli altri lavoratori.

    L’art. 69 della Costituzione dispone: “I membri del Parlamento ricevono un’indennità stabilita dalla Legge”. La disciplina interna alle Camere ha arricchito in autodichìa [Chi legifera è anche Giudice=DITTATURA della POLITICA ] tali indennità con aggiunta dei vitalizi. Per i consiglieri regionali i vitalizi sono approvati da leggi regionali.
    Nel 1997, con Bertinotti il requisito minimo per acquisire il diritto all’assegno vitalizio è stato portato da 1 solo giorno a 2 anni, 6 mesi e un giorno.
    Dal 2007, il periodo minimo per maturare il diritto all’assegno è stato portato a 4 anni, 6 mesi e 1 giorno.
    Dal 2012, con Monti il diritto al trattamento pensionistico si maturava dopo 5 anni di mandato e di aver compiuto 65 anni di età. Per ogni anno di mandato oltre il quinto, il requisito anagrafico è diminuito di un anno sino al minimo di 60 anni;
    Dopo cosa si sono approvati a danno dei cittadini lavoratori?

    Premetto, purtroppo, con la mia professione, lavorando con imprese, quando il lavoro c’è, siamo costretti a fatturare tutto. La cassa pensioni CNPAIALP è privata ed è in ottima salute, riscuotiamo se paghiamo.
    Pero’ viene naturale la seguente riflessione: Allora, chi è piu’ ladro…. Chi non paga le tasse oppure chi le tasse le impone agli altri e si autodichia privilegi, come sopra nel 2023, incivili?

    Soluzione Chiara e Semplice:
    Abolire l’INPS pubblica;
    Obbligare tutte le catogorie a pagarsi i contributi pensionistici con casse private controllate e certificate. Il datore di lavoro pagherà, in aggiunta, al dipendente che verserà il corrispettivo alla propria cassa. Compreso i politici.

  6. Stefano Antoniutti

    I più ricchi, come retribuzione e poi come pensioni, vivono più a lungo perché possono ricorrere a cure migliori (forse) e più tempestive (sicuramente) a pagamento. Vogliamo quindi stabilire per legge, tramite la rivalutazione dei coefficienti di trasformazione, il diritto che la longevità sia uguagliata per tutti ?
    È l’ennesimo esempio questo sotto articolo di come la scienza economica partorisca mostri …

  7. Andrea

    E se vengo da una famiglia con una storia di problemi cardiovascolari non ho un’aspettativa di vita più bassa? O se al momento della pensione ho già malattie croniche? Sì potrebbe quindi vedere un sussidio dei meno sani in favore dei pensionati più sani.

    Inoltre, ci sono delle differenze aspettativa di vita anche per livello di istruzione (vedi articolo pubblicato su questo sito qualche anno fa).

    Infine state considerando il sesso come una variabile binaria, ma ci sono condizioni altre, che per quanto non statisticamente rilevanti, riguardano individui che potrebbero vedersi assegnare un’aspettativa di vita poco significativa.

    [Ironico] Detto questo non rimane che sviluppare un algoritmo per fare prima feature selection e poi assegnare ad ogni pensionato un valore personalizzato.

  8. Paolo Giovannini

    Una domanda. Seguendo il vostro ragionamento un pensionato che dovesse superare i limiti di vita prevista dovrebbe avere la pensione decurtata perche’ sfrutterebbe troppo il montante accumulato. Ma se una persona dovesse venire a mancare prima del termine medio stabilito come pensereste di indennizzarla? (la sua famiglia ovviamente, il de cuius ormai su questa terra avrebbe poco da essere indennizzato). A me sembra che i ragionamenti INPS siano leggermente anticostituzionali in quanto coloro che hanno vita presunta più elevata appartengono (guarda caso) a quella parte di contribuenti che di più hanno pagato in termini di tasse (aliquote più alte) e contributi.

  9. Se si apre il “vaso di pandora” di calibrare i coefficienti per caratteristiche soggettive (esogene o endogene che siano) non se ne esce più. Ogni volta saremmo chiamati a uno sforzo di distinguo certosino e altamente opinabile. Vanno bene i coefficienti che ci sono. L’unica modifica che potrebbe avere un senso e una utilità è proprio la differenziazione per genere, che però l’articolo pare ritenere non necessaria. Teniamoci questo assetto e concentriamo sforzi e risorse negli istituti di welfare diversi dalle pensioni, in grado di fare redistribuzione real-time durante tutte le fasi della vita. Grazie e buona giornata.

  10. Publio Cornelio Scipione

    Gli strumenti per definire i coefficienti di trasformazione devono essere misurati oggettivamente. Ok l’inclusione del sesso ( di nascita) perché immutabile. Ma i lavori? O il reddito? Uno cambia lavoro e ha redditi variabili nel corso del tempo… Lasciandolo poi perdere ogni considerazione socialista su redistribuzione su cui non sono d’accordo ma è opinabile. Una riflessione andrebbe fatta sulla staticità dei coefficienti di trasformazione nel corso del tempo, una volta definita l’ammontare di pensione … Con i progressi della medicina succede che l’aspettativa di vita cambi in genere in aumento, dal momento in cui uno ha preso una pensione. Occorrerebbe pertanto , seppur in popolare , ma al fine di garantire la sostenibilità attoriale del sistema , prevedere un meccanismo di correzione in fase di erogazione dei beneficio previdenziali dell’ammontare della rendita in funzione della variazione dei coefficienti di trasformazione…

  11. LC

    La variabile che impatta di più sulla aspettativa di vita è lo stato di salute. C’è chi va in pensione con un tumore maligno che prevede il 20% di sopravvivenza a 5 anni. C’è chi ha avuto 3 infarti e by-pass.

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