Le tensioni tra Italia e Unione europea sul caso Lufthansa-Ita rendono evidente l’importanza di saper conciliare il diritto della concorrenza con una politica industriale genuinamente europea. Un risultato che si può ottenere puntando su tre sinergie.
Il difficile rapporto tra politica industriale e politica della concorrenza
Le recenti controversie tra il governo italiano e la Commissione europea sull’acquisizione di Ita da parte di Lufthansa hanno messo in evidenza un tema importante in vista delle prossime elezioni europee: la complessa interazione tra diritto della concorrenza e politica industriale. Normalmente, le politiche antitrust e il controllo delle concentrazioni sono temi prettamente tecnici. Appannaggio di esperti legali ed economisti che discutono di concetti oscuri ai più, come le “teorie del danno conglomerate” e gli “effetti di ecosistema”. Tuttavia, quando il diritto della concorrenza entra in conflitto (vero o presunto) con la politica industriale, esce da quest’ombra ed entra nel dibattito pubblico. Lufthansa/Ita non è il primo caso e non sarà certo l’ultimo. Uno dei momenti più emblematici di questo “scontro” fu la fusione Siemens/Alstom del 2018/2019. I due produttori di treni ad alta velocità (spinti dai governi Macron e Merkel) cercarono di fondersi per creare un grande “campione europeo”, ma la Commissione chiese alle parti di vendere alcuni rami d’azienda per non accumulare troppo potere sul mercato. Francia e Germania provarono in tutti i modi a superare le resistenze della Commissione, addirittura proponendo un improbabile diritto di veto del Consiglio sulle decisioni antitrust. La fusione, però, non venne mai completata. I riflettori si sono poi spostati sulle piattaforme digitali, dove genuine problematiche antitrust si sono mescolate a considerazioni geopolitiche sul ruolo delle big tech americane. In questo contesto, le autorità antitrust europee hanno iniziato a intervenire nei mercati digitali (anche) nella speranza di poter creare spazio per un gigante tecnologico europeo. Con la pandemia e la guerra, la politica industriale ha rapidamente scalato la lista di priorità di molti governi (non solo in Europa). Non sorprende quindi vedere il governo francese ostacolare la nomina dell’americana Fiona Scott Morton a capo degli economisti antitrust della Commissione, Thierry Breton sfruttare la temporanea assenza della commissaria alla concorrenza per tentare di creare un super commissario per la politica industriale-digitale-antitrust e la premier italiana fare pressioni sulla Commissione per approvare la cessione di Ita. Con le elezioni europee alle porte, le tensioni sono destinate ad aumentare, sollevando un’interessante domanda: queste politiche sono in conflitto intrinseco tra loro o possono co-esistere?
Una nuova prospettiva economica: tre idee per creare sinergie
Dieci anni fa, la risposta di moltissimi economisti sarebbe stata: sì, sono in conflitto ontologico. La politica industriale “distorce” i mercati per definizione, proteggendo le imprese nazionali e la relativa occupazione. Mentre le politiche della concorrenza cercano di fare l’esatto contrario: eliminare distorsioni per far funzionare i mercati in modo efficiente a vantaggio dei consumatori. Tuttavia, negli ultimi anni, la letteratura economica ha messo in discussione la reputazione convenzionalmente distorsiva e inefficiente della politica industriale. La “nuova economia della politica industriale” fornisce indicazioni preziose su come le due politiche pubbliche possano coesistere in modo proficuo. In primo luogo, quando la politica industriale genera nuove imprese, le fa crescere e le promuove sui mercati globali può avere un impatto positivo sulla concorrenza. Philippe Aghion fu tra i primi a parlarne e ci sono sempre più evidenze empiriche a sostenere quest’idea. Un’idea che invita a identificare e sostenere in maniera sistematica e strategica i mercati che potrebbero beneficiare dall’entrata e dall’espansione sostenibile di imprese europee. Le attuali iniziative della Commissione sui semiconduttori sono un buon esempio di questo approccio. In secondo luogo, l’innovazione è un aspetto fondamentale per entrambe le politiche. Da un lato, le autorità antitrust sono sempre più interessate a garantire che le trasformazioni tecnologiche non vengano ostacolate da concentrazioni e intese. Dall’altro, le politiche industriali degli anni 2020 tendono sempre più a concentrarsi sugli investimenti in ricerca e sviluppo e sull’innovazione in settori strategici, lasciando in secondo piano (almeno sulla carta) la protezione incondizionata di industrie mature e inefficienti. Questa è un’evidente area di complementarità che dovrebbe essere al centro degli sforzi della prossima Commissione. Infine, la governance economica e politica dell’Ue offre un contesto unico per creare sinergie tra le due politiche. A differenza di Cina, Giappone e Stati Uniti, l’Unione europea è ancora divisa in 27 mercati nazionali che in molti settori sono in forte concorrenza tra loro (l’industria automobilistica è un buon esempio). Si possono promuovere dinamiche concorrenziali all’interno dell’Ue, sostenendo allo stesso tempo i migliori e più promettenti attori europei nella corsa globale verso l’innovazione e la leadership di mercato. Inoltre, l’Ue è frammentata in decine di interessi politici nazionali e regionali, più di altre grandi economie. Questo potrebbe rendere più facile svincolare la politica industriale da logiche elettorali a breve termine, permettendo di realizzare interventi più efficaci. Tuttavia, affinché questo scenario si realizzi, è essenziale disegnare nuove politiche industriali in modo autenticamente europeo e genuinamente strategico, abbandonando la vecchia tentazione di proteggere imprese e mercati inefficienti e di promuovere gli interessi specifici di alcuni stati membri a discapito dell’Unione nel suo complesso.
* Le opinioni espresse in questo articolo sono strettamente personali e riflettono esclusivamente il punto di vista individuale dell’autore.
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Savino
Probabilmente alcune parti dell’economia che sono state privatizzate in passato andrebbero nazionalizzate e, al contrario, tanta parte dell’economia trattenuta finora dallo Stato andrebbe lasciata al mercato. Insomma, bisognerebbe scomporre, in alcuni casi anche spacchettare, e poi ricomporre.