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Lavorare nel pubblico o nel privato? Due mondi a confronto*

I redditi annuali del settore pubblico sono in media superiori di 10 mila euro rispetto a quelli del privato. Perché sono più alte stabilità occupazionale ed età. La differenza è più marcata al Sud. Scarsa la mobilità tra due mondi ben poco interconnessi.

Il confronto fra due settori

Il settore pubblico è un agente economico di cruciale importanza nel mercato italiano, sia per la specificità dei servizi e dei beni che produce, sia per la sua dimensione.

Nel rapporto Inps 2023 si sono utilizzati i dati Pos.Pa di fonte Inps dal 2014 al 2021 per effettuare una comparazione delle dinamiche del lavoro nel pubblico e nel privato. Ne emergono aspetti molti interessanti.

In primo luogo, i redditi annuali medi sono decisamente più elevati nel pubblico rispetto al privato, in media di circa 10 mila euro. Ciò non è dovuto a differenze nei salari settimanali, che sono piuttosto simili tra pubblico e privato se si controlla per l’età del lavoratore (di quasi 10 anni in media superiore nel pubblico), quanto a una maggiore stabilità occupazionale fornita dal datore di lavoro pubblico, in media circa 10 settimane lavorate in più all’anno.

Da una analisi di regressione multivariata si evince, inoltre, come il premio grezzo di lavorare nel pubblico sia in media di circa l’8 per cento, con una forte varianza tra Nord (3 per cento) e Sud (22,7 per cento).

Nella figura 1 si riporta il rapporto tra i valori medi relativi ai redditi annuali, ai salari settimanali e alle settimane lavorate, tra pubblico e privato nelle province italiane, calcolato nel 2021: quando il rapporto è superiore a 1 risulta più vantaggioso lavorare nel settore pubblico. Al Sud il rapporto è sempre maggiore di 1, spesso con percentuali rilevanti e il premio annuale di lavorare nel pubblico raggiunge anche valori del 100-125 per cento. Al Nord, invece, c’è maggiore variabilità e il rapporto è sia inferiore che superiore a 1, a seconda delle province. Se si considerano i soli salari settimanali, la distribuzione è simile, ma il vantaggio di lavorare nel pubblico al Sud diventa meno marcato, fino a raggiungere un massimo di circa il 40 per cento. La terza mappa conferma che la spiegazione principale dei differenziali fra pubblico e privato a livello provinciale è da attribuire alle settimane lavorate: nelle province del Sud i lavoratori del pubblico hanno fino all’80 per cento di settimane lavorate in più rispetto al privato.

Per quanto attiene alle disuguaglianze, l’indice di Gini è decisamente più contenuto nel settore pubblico per i redditi annuali (fra lo 0,10 e 0,15 in meno rispetto al valore nel privato), mentre non vi è una significativa differenza per l’indice nei salari settimanali. Ciò indica che le differenze nella variabilità dei redditi annuali sono spiegate dalla dispersione delle settimane lavorate, assai più contenuta nel pubblico (circa 0,07 contro quasi 0,25 nel privato).

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Considerando invece i percentili della distribuzione, il pubblico assicura un premio non trascurabile ai lavoratori non qualificati: nel 2014 il reddito del decimo percentile era circa il doppio di quello nel settore privato; il differenziale si è ridotto negli ultimi anni.

Allo stesso tempo non si rilevano differenze al novantesimo percentile e alla mediana della distribuzione dei redditi annuali fra settore pubblico e privato, quando si rimane a livello aggregato, mentre se ci si addentra nei vari comparti vi è una forte eterogeneità, lungo tutta la distribuzione. Se si considera il decimo percentile nei vari comparti, si passa da circa 8.500 euro per la scuola e da 12 mila euro degli enti locali a circa 25 mila per enti di ricerca e università e a 33.500 euro per la sicurezza. I divari sono associati a differenze nei salari settimanali, ma soprattutto a differenze nelle settimane lavorate: nella scuola il decimo percentile per settimane lavorate è uguale a 35, negli enti locali a 30, per il sistema sanitario nazionale a 31, mentre per gli altri comparti la quota di lavoratori che non si avvicinano alle 52 settimane lavorative è minima. Importanti differenze sono presenti anche per la mediana e il novantesimo percentile dei redditi annuali, che tuttavia non sembrano essere legati a disparità nelle settimane lavorate quanto a disparità nel salario settimanale.

Figura 1 – Rapporti fra settore pubblico e privato a livello provinciale

Le modalità di assunzione

Il pubblico impiego ha modalità di assunzione molto diverse dal settore privato. Si tratta spesso di politiche centralizzate, che si esplicano tramite concorsi pubblici. Una conseguenza è che in alcuni comparti si possano avere forti discontinuità nella creazione di nuovo lavoro. Avere una descrizione di ciò che accade nei vari comparti permette una analisi preliminare sull’investimento pubblico in capitale umano nel nostro paese. L’aumento dell’occupazione nel periodo 2014-2021 è determinato principalmente dalla scuola, soprattutto attraverso personale con contratto a tempo determinato, la cui incidenza è passata dal 5 a quasi il 30 per cento. Il Servizio sanitario nazionale è il secondo settore per numero di dipendenti, seguito dagli enti locali. Per i redditi annui da lavoro, i valori più elevati si trovano nelle università ed enti di ricerca, seguite da amministrazioni centrali, Sistema sanitario nazionale e sicurezza. I valori relativi alla scuola sono più bassi e, addirittura, diminuiscono nel tempo; la causa, anche in questo caso, è probabilmente l’aumento significativo del personale a tempo determinato. Andamenti analoghi si osservano per i salari settimanali, mentre le settimane lavorate mostrano una tendenza più costante nel tempo, con una riduzione nella scuola, nel Ssn e negli enti locali, e un aumento nel settore della pubblica sicurezza.

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Figura 2 – Comparti del settore pubblico: dinamiche occupazionali, reddituali, settimanali

La carriera

Che tipo di carriera può fare un giovane che sceglie la pubblica amministrazione invece del settore privato? Qual è la progressione di carriera nei primi anni di impiego? Per rispondere a queste domande sono state analizzate le carriere dei giovani lavoratori al primo impiego nel periodo dal 2014 al 2022, seguiti per i primi sette anni di lavoro. Come accade per le carriere dei loro colleghi più anziani, nel settore pubblico anche per i giovani si registra una più significativa stabilità lavorativa, come mostra il numero di settimane lavorate. Ad esempio, al primo anno di lavoro vi è una differenza molto marcata tra le settimane lavorate nel pubblico (più di 35) e quelle nel privato (meno di 20). Tuttavia, nelle ultime coorti il vantaggio si riduce. Ciò è dovuto al fatto che la probabilità di iniziare la carriera con un lavoro atipico (soprattutto a tempo determinato) è cresciuta molto nel pubblico negli ultimi anni.

Un’analisi sulle transizioni tra i due settori indica invece come la probabilità di muoversi tra pubblico e privato sia molto bassa: i due settori costituiscono per lo più mondi a sé stanti. Alcune carriere del pubblico sono effettivamente poco spendibili nel privato, si pensi ad esempio al mondo della scuola o delle forze armate. Lo stesso vale per alcuni settori del privato, come le manifatture o le costruzioni.

Una mobilità più alta si osserva per le donne – che tendono a muoversi da privato a pubblico con più facilità – e per i giovani con carriere precarie, che hanno più probabilità di transitare da un mercato all’altro.

Non vi sono molte analisi nella letteratura economica sulle carriere dei lavoratori pubblici, specialmente sui paesi più sviluppati, principalmente a causa della carenza di dati amministrativi di qualità. I dati Inps forniscono una nuova fonte informativa e le prime analisi mostrano caratteristiche peculiari del lavoro nel pubblico impiego rispetto al privato, aprendo alla possibilità di ulteriori approfondimenti nel futuro.

* Questo articolo è pubblicato in contemporanea su Menabò di Etica ed Economia.

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Le privatizzazioni, una storia di illusioni perdute

  1. Savino

    E’ poca la gente portata a lavorare per il pubblico, poichè oggi c’è un’idea troppo competitiva di lavoro, che non permette di vedere lo spirito costruttivo del mettersi al servizio del pubblico. Questa miopia iniziale non permette di vedere la nobiltà del lavoro pubblico. Le scarse retribuzioni e le scarse valorizzazioni ne sono la conseguenza. Non è detto che il privato sia migliore o meno lavativo. Dopo aver smantellato, in Italia e in buona parte del mondo occidentale, il settore industriale, nessun lavoratore può preferire, su retribuzione e dintorni, in maniera netta il privato al pubblico come poteva avvenire 30-40 anni fa.

  2. Alessandro LA ROCCA

    Si possono fare tutte le analisi possibili e immaginabili tra retribuzioni nel settore pubblico, versus retribuzione nel privato usando fonti amministrative, ma al netto dell’ elusione macroscopica contributiva esistente nel settore privato. Questo implica che c’è una evidente sottostima delle retribuzione private, dove molto spesso il lavoratore per scelta o per necessità, accetta ad esempio, una busta paga di importo minore, ricevendo la differenza in nero.

    • Daniele

      Hai pienamente ragione, nel pubblico la pressione fiscale può arrivare anche ad un 43 % come nel mio caso.
      Nel settore privato il nero è la religione, scusate la franchezza

  3. Paolo

    Più che altro andrebbe fatto un ragionamento per agganciare la parte variabile delle retribuzioni del pubblico alla produttività reale, visto che nelle regioni dove per unanime giudizio (dei cittadini che a milioni emigrano per curarsi, quando non proprio definitivamente), unanime esito dei dati statistici (ad es. le prove invalsi, la vita media, gli esiti medi di rispetto dei LEA, ecc.), nonchè unanime perdurante ritardo nella capacità di spendere i fondi per investimento (europei, ma anche italiani), sono anche quelle dove il divario salariale è maggiore, il che dovrebbe spingere ad assorbire i lavoratori di qualità migliore.
    Ma naturalmente il tema non si pone all’attenzione del dibattito politico, per evidenti ragioni.

  4. Alvise

    Il mio collega è stato assunto da un mese in D1 e prende 1.600 euro mese.
    Proviene dal privato dove con minore responsabilità prendeva € 2.200.
    Quando ha saputo che io sono un D2 e prendo 1.680 euro al mese e l’Ente ( ente pubblico locale istituzionale….) in 16 anni non mi ha dato una progressione orizzontale ( ne gli altri miei colleghi ne hanno beneficiato) ne la indennità di funzione men che meno la PO, pur dovendomi sorbire tutta la gestione degli appalti ( ed intendo dalla scrittura del disciplinare , al capitolato, a tutti gli allegati, gestione gara in proprio sorbendomi di tutto, valutazioni, verbali , contratto e gestione del contratto ,….) ha preso carta e penna ed è ritornato da dove è partito.
    A Roma quando scrivono le leggi e i regolamenti, dovrebbero sentire anche i peones degli enti più piccoli.
    Non siamo ministeri, ne regioni ne città con 300.000 abitanti, siamo invece al servizio di Enti con 4/6 amministrativi ( compresi i tecnici che si devono sorbire anche la parte amministrativa propria e di altri e viceversa). Pensare in grande va bene, ma bisogna conoscere la realtà dei fatti. Altrimenti si creano delle magnifiche costruzioni “legulee” che creano confusione, danni (erariali di solito, ma per costruzione amministrativa non per vero danno di soldi) tipo quello in fieri dal 01.01.2024, quando si vorrà dare pieno corso al nuovo regime delle piattaforme digitali per gli appalti. Piattaforme che si vuole supportino tutto il ciclo degli affidamenti, dalla programmazione alla esecuzione del contratto.
    Mi pare si voglia troppo e non si investa nel creare le condizioni prime perché poi si possa avanzare.
    Ridateci il 163/2006, ridateci il segretario comunale di nomina prefettizia, ridateci un po’ di normalità e meno burocrazia fine a se stessa.

    • Toni

      Ti capisco, essere in un ente locale piccolo e provvedere agli appalti è da spararsi! good luck.

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