Con un governo che sembra arrivato ai titoli di coda, Londra si prepara alle elezioni politiche. Probabilmente le urne decreteranno una sconfitta per i conservatori. Ma anche i laburisti hanno molti nodi da sciogliere prima di tornare a Downing Street.

La politica economica del governo Sunak

A Londra, la legge finanziaria presentata agli inizi di marzo dal cancelliere dello scacchiere Jeremy Hunt ha deluso i deputati Tory e la stampa di destra, che speravano che il governo tirasse fuori dal cappello un inaspettato coniglio. Al di là di affermazioni balzane come “le tasse personali sono al livello più basso dal 1975”, in virtù di una riduzione dei contributi sociali di due punti percentuali, e di idee rubate senza pudore all’opposizione laburista – dall’abolizione di benefici fiscali ai non residenti a una supertassa una tantum imposta ai fornitori di energia, a un moderato aumento degli assegni famigliari, fino a un forte incremento della tasse sulle sigarette elettroniche – rimane poco di sostanza.

In realtà, nessuno crede all’immagine che Rishi Sunak vuole dipingere di un governo Tory che cerca di ridurre il ruolo dello stato, per lasciare spazio all’autonomia dei mercati. Come spiega il direttore del centro studi Ifs, il debito pubblico è quasi 4 punti percentuali più alto rispetto alle elezioni del 2019 e la tassazione complessiva raggiungerà il 37,1 per cento del Pil nel 2028, il livello più alto dal 1948. Il cancelliere dello scacchiere cita la pandemia e la guerra in Europa (ma non cita né Brexit né le spericolate acrobazie del suo predecessore Kwasi Karteng, cancelliere nel governo di Liz Truss) come spiegazione dell’inesorabile indebitamento, ma la sensazione è che il governo di Sunak sia vicino alla fine. Molti ministri e grandi nomi, tra cui Theresa May, decidono di non ri-candidarsi, sia per non rischiare l’umiliazione che toccò nel 1997 al fanatico ministro thatcheriano Michael Portillo, defenestrato contro ogni aspettativa, sia soprattutto perché, abituati a essere al centro delle macchine governative, non vogliono ritrovarsi a fare il deputato di opposizione, che significa soprattutto ascoltare le lamentele degli elettori per i servizi pubblici che non funzionano, o inaugurare parchi giochi. Meglio scrivere le proprie memorie o farsi pagare profumatamente per consulenze o attività di lobbying.

Come i partiti arrivano alle elezioni

Il senso di “fine impero” che percepisce chi vive in Inghilterra trova riscontro nei sondaggi elettorali. La figura 1 illustra come i laburisti siano chiaramente i favoriti per le prossime elezioni politiche, che devono tenersi prima della fine dell’anno. Stando ai sondaggi, con Sunak i Tory non hanno recuperato i voti vaporizzati dal fanatismo ideologico e dall’incompetenza di Truss e Kwarteng.

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Figura 1 – Sondaggi per le elezioni politiche nel Regno Unito. Risposta alla domanda: se dovessi votare oggi alle elezioni politiche, per quale partito voteresti?

Fonte: Financial Times

Non ci sono solo i sondaggi. Le elezioni suppletive, che una volta erano dovute perlopiù al decesso di un deputato, e oggi sempre più spesso dovute a scandali di varia natura, sessuali o di corruzione, o semplicemente a disaffezione, indicano un vero crollo della quota elettorale del partito conservatore. Se molti elettori guardano al centro sinistra, i Tory devono anche difendere il fianco destro, dove il partito Reform già raccoglie molti voti di nazionalisti anti-immigrazione, e potrebbe rafforzarsi ulteriormente se Nigel Farage cedesse all’insistente corte che la stampa di destra gli fa da tempo e accettasse di candidarsi alle prossime elezioni. Reform intende presentare candidati in tutti i collegi elettorali e anche se nessuno pensa che possa vincerne più di un paio, in molti seggi potrebbe togliere abbastanza voti al candidato Tory da impedirgli di piazzarsi al primo posto, cedendo così il seggio ai laburisti o ai LibDem.

Se i dettagli quotidiani rendono difficile prevedere una vittoria Tory alle prossime elezioni, la situazione di lungo termine rende problematica anche una decisa vittoria dei laburisti. Alle elezioni del 2019 i laburisti ottennero 203 seggi. A questi ne vanno tolti sei per il periodico aggiustamento della geografia elettorale. La maggioranza parlamentare è 326. Nella vittoria “landslide” del 1997 il Labour party guidato da Tony Blair guadagnò 145 seggi. Se dovesse uguagliare quella storica vittoria, Keir Starmer si troverebbe a guidare una maggioranza esigua, che lo lascerebbe esposto a ribelli nel gruppo parlamentare o a varie altre inevitabili assenze periodiche.

La scalata di Starmer al numero 10 di Downing Street è resa più ardua da una serie di problemi che Blair non aveva, o aveva in misura ridotta. Ricordo bene l’entusiasmo per il progetto del New Labour, incapsulato perfettamente dalla canzone dei D:Reams “Things can only get better”, informale inno elettorale dei Labour. Oggi la sensazione è che, come nel 1997, gli elettori detestino i Tory, ma, al contrario di allora, guardino ai Labour senza passione, vedendo il partito solo come l’alternativa meno peggiore: il rischio per i laburisti è che molti non votino. Inoltre, rispetto a Blair, la coalizione di Starmer è più fragile. La sinistra corbynista, i cui vertici sono stati decapitati dalla dirigenza nazionale, rimane attiva a livello locale, dove mantiene il controllo di consigli provinciali e di decisioni importanti come la nomina dei candidati parlamentari: nell’elezione suppletiva di Rochdale, tenutasi il mese scorso, i laburisti hanno perso il seggio, perché hanno dovuto sospendere Azhar Ali, il consigliere regionale che avevano presentato come candidato, a causa dei suoi commenti antisemiti registrati e diffusi dal Daily Mail, dopo la scadenza della presentazione dei candidati.

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Legata a questa è un’altra difficoltà. In passato, la popolazione la cui origine risale all’immigrazione dal sub-continente indiano ha tradizionalmente votato laburista. La fedeltà di questi elettori, già indebolita dal passaggio del tempo, è stata messa a dura prova dal conflitto nella striscia di Gaza e dal rifiuto di Starmer di votare a favore di una mozione alla Camera dei comuni dei nazionalisti scozzesi per un’immediata tregua. Disinteresse e astensionismo di un numero sufficiente di questi elettori potrebbero costare seggi in molti collegi marginali nei centri urbani, quelli che il Labour deve assolutamente vincere per ottenere una decisiva vittoria.

Molti tirerebbero senz’altro un sospiro di sollievo a vedere i Tory sui banchi dell’opposizione a Westminster, ma un governo Starmer avrebbe senza dubbio un compito di difficoltà straordinaria. È opinione generalmente condivisa che nel 1997 Blair e Gordon Brown ereditarono da John Major e Kenneth Clarke un’economia in buone condizioni, oggi se Rachel Reeves passerà il Natale al numero 11 di Downing Street, la residenza del cancelliere dello scacchiere, difficilmente trascorrerà vacanze tranquille. I servizi pubblici, dalla sanità, alla polizia, al sistema scolastico, all’assistenza agli anziani, hanno l’acqua alla gola e ogni cambiamento richiederà tempo e denaro: è difficile che gli elettori, impoveriti e resi impazienti da 15 anni di austerità, siano disposti a concederne molto.

Come spiega un pezzo del Guardian, l’economia del Regno Unito va oggi molto peggio di una ventina di anni fa. Paradossalmente, l’unico indicatore che il quotidiano indica come “buone notizie”, cioè la bassa disoccupazione, è una medaglia con un difficile rovescio per ogni governo nel Regno Unito. Si accompagna infatti alla difficoltà delle imprese e delle pubbliche amministrazioni di trovare personale, una difficoltà che raggiunge livelli drammatici in settori quali la sanità pubblica e l’industria alberghiera. La ovvia soluzione al problema – allentare le regole sull’immigrazione, compresa quelle causate da Brexit – susciterebbe ire furibonde nella stampa e nell’opinione pubblica di destra.

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