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Lo spalma-detrazioni? Un emendamento di scarsa rilevanza finanziaria

L’emendamento che spalma su dieci anni le detrazioni comporta una leggera stretta sul Superbonus. Il problema è che si continua a operare in un’ottica anno per anno e non di medio periodo, come invece richiederebbero le nuove regole europee.

L’emendamento sul Superbonus

Il 15 maggio c’è stato il via libera della Commissione finanze al Senato sull’emendamento presentato dal governo al decreto legge di fine marzo 2024 sul Superbonus, ora in fase di conversione.

Per quanto riguarda il Superbonus, in sostanza l’emendamento non consente più alle banche la compensazione dei propri crediti di imposta con i contributi sociali a partire da gennaio 2025; mentre impone a coloro i quali fruiscono del Superbonus per lavori effettuati dal 2024, e che non hanno diritto alla cessione del credito, di richiedere la detrazione spettante in 10 anni e non più in 4 o 5 anni, come era prima possibile. La norma è valida anche per coloro che hanno diritto alle detrazioni relative a lavori fatti tra gennaio 2024 e la data di entrata in vigore del decreto. Quindi, come contestato da Forza Italia, di fatto l’emendamento avrebbe valore retroattivo per i tre mesi del 2024.

Il provvedimento arriva quando ormai l’ammontare di spesa da Superbonus, in larghissima parte dovuto alla possibilità di fruire del 110 per cento con cessione del credito senza limiti di reddito, è arrivata a oltre 160 miliardi. Secondo la relazione tecnica, la quota di spesa detraibile per il 2024 e 2025 ammonta a 12 miliardi (detto per inciso, sarebbe stato opportuno avere qualche ragguaglio sulla metodologia di stima utilizzata). Le cifre in gioco sono ovviamente molto più basse rispetto a quanto siamo stati abituati finora, per due motivi. La detrazione nel 2024 è del 70 per cento e nel 2025 è del 65 per cento, ma soprattutto perché non c’è più la possibilità di utilizzare la cessione del credito di imposta.

Il decreto non interviene sulla coda di coloro che possono ancora utilizzarla, consentendo a imprese e banche di continuare a richiedere i crediti in 4 o 5 anni. Soprattutto, non interviene in modo retroattivo sui crediti di imposta non ancora compensati relazionati alla spesa. Spalmare questi crediti su 10 anni avrebbe inciso sicuramente in modo significativo sull’andamento del debito, rendendolo più sostenibile, ma avrebbe messo in crisi la maggioranza di governo e avrebbe fortemente incrinato il rapporto tra il governo e il sistema bancario che aveva fissato il prezzo del suo servizio, contando su una compensazione da ricevere in 4 o 5 anni.

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I conti del governo

Perché allora il governo ha insistito per fare questa operazione che porta maggiori entrate nel 2025 per 1,6 miliardi e nel 2026 per 2,5 miliardi, posticipando minori entrate agli anni successivi?

La quasi totalità dei contribuenti che fruiranno dell’agevolazione superbonus nel 2024 e 2025 sarà costituita da coloro che hanno presentato la Cila (comunicazione di inizio lavori asseverata) dopo il 17 febbraio 2023 o che pur avendola presentata prima, alla data di entrata in vigore del decreto non avevano fatturato il primo Sal (stato avanzamento lavori). Questi potranno vantare nei confronti dello stato solo crediti cosiddetti non pagabili (come da definizione Eurostat), visto che sarà loro concessa solo la possibilità di fruire delle detrazioni. Quindi lo stato dovrà contabilizzare anno per anno le minori entrate relative alle detrazioni che verranno vantate dai contribuenti. Di conseguenza, l’entità delle detrazioni è rilevante per determinare il deficit dell’anno.

Con l’emendamento, il ministero dell’Economia tiene fede alle promesse contenute nell’introduzione del Documento di economia e finanza, dove si diceva che si sarebbero prese le misure necessarie per riportare il deficit “al di sotto del 3 per cento entro il 2026 e a non discostarsi dai valori della Nadef anche per gli anni 2025 e 2026”. Effettivamente, il rapporto deficit/Pil tendenziale del Def nel 2025 è al 3,7 per cento e nel 2026 al 3 per cento. Con il decreto si liberano 700 milioni nel 2025 e 1,6 miliardi nel 2026, che portano il deficit a 3,67 per cento nel 2025 e 2,93 per cento nel 2026, valori quasi coincidenti con quelli Nadef. Si tratta tuttavia di variazioni veramente esigue (0,1 punti di Pil in due anni), soprattutto se si pensa che il deficit, che ingloba anche il finanziamento delle politiche del 2024 e che non hanno ancora copertura, ammonta nel 2025 a 4,6 per cento nel 2026 e 4 per cento nel 2026.

Il rinvio di plastic tax e sugar tax

Parte delle maggiori entrate nel 2025 e 2026 ottenute per effetto dell’obbligo di fruire delle detrazioni in 10 anni sono state utilizzate per finanziare rispettivamente 900 e 800 milioni di maggiori spese o minori entrate negli stessi due anni. In particolare, il differimento della plastic tax e sugar tax a luglio 2026 causa nei due anni minori entrate per più di 800 milioni. Ancora maggiori sono le spese previste per 2027 e 2028. Visto il disinvolto utilizzo degli apparenti spazi finanziari liberati, è opportuno ricordare che le maggiori entrate così ricavate sono solo dovute al fatto che si posticipano al futuro le minori entrate. Se si ragionasse in un’ottica di programmazione di medio termine (come si dovrebbe fare con le nuove regole europee) le maggiori spese o minori entrate previste non potrebbero essere finanziate, a meno che nel medio termine non si preveda un incremento di debito per la loro copertura.

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Le risorse che si sono dovute trovare per la copertura del rinvio di plastic tax e sugar tax è stato il prezzo da pagare per trovare un accordo nella maggioranza, visto che Forza Italia non era d’accordo sulla retroattività della misura. Sicuramente in settembre non ci saranno più le sirene elettorali e forse si potrà ragionare con più equilibrio sul problema di come trovare risorse per 20 miliardi, se si vuol mantenere il deficit tendenziale del Def. Oppure si dovrà scegliere a quali promesse rinunciare: lo sgravio contributivo o l’abbassamento della pressione fiscale Irpef?

L’emendamento del governo, che alla fine propone una leggera stretta sul Superbonus, ricavando in due anni un decimale di Pil, è con ogni probabilità solo un antipasto di quello che ci aspetta.

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Il Punto

  1. Savino

    In questa fase ci vorrebbe un provvedimento che andasse a verificare l’effettiva esecuzione dei lavori e se essa coincide ed è coerente con quanto dichiarato inizialmente, con responsabilità di beneficiari, imprese e professionisti mendaci in termini tanto di sanzione quanto di contribuzione perequativa nei confronti della collettività a fronte di un aggio immotivato. Non meno responsabilità hanno gli autori materiali (politici e tecnici) dell’istituzione del bonus.

  2. Rick

    Grazie all’autore per i conti. Sarei curioso di sapere quale soluzione possa sostanzialmente incidere sui costi del superbonus, ed essere tecnicamente, legalmente e politicamente fattibile.

    Intervenire retroattivamente sulle spese pre-2024 è difficile. Forse una maggiorazione (magari temporanea) sull’IMU seconde case che hanno fruito del superbonus? Oppure considerare il superbonus come reddito e tassarlo di conseguenza?

  3. Stefano Sylos Labini

    Secondo il modello econometrico della Banca d’Italia, il moltiplicatore associato all’agevolazione dovrebbe essere intorno all’unità, dunque con 100 euro di detrazioni si ottiene un aumento del Pil pari a 100 euro. Se consideriamo che l’aumento del Pil genera maggiori entrate fiscali e che il Cresme ha stimato queste entrate pari al 34% del totale delle detrazioni, possiamo facilmente calcolare che il costo netto per lo Stato è pari 100 – 34 = 66. Il costo netto può essere considerato come un aumento del debito pubblico che, se viene messo in rapporto con l’aumento del Pil – 66 / 100 – dimostra che il Pil cresce più del debito spingendo al ribasso il rapporto debito / Pil. Ciò è coerente con i dati empirici per cui il rapporto debito/Pil è diminuito di 18 punti percentuali dal 2020 (155%) al 2023 (137%). Stefano Sylos Labini

  4. Pieffe

    Ho la netta senzazione che stanno raschiando il fondo del barile. Come definire altrimenti questo mini intervento sul super bonus e la mini cessione di azioni ENI ( peraltro a perdere), a fronte di un quadro finanziario come il nostro? Abbiamo un bilancio 2024 quanto meno incerto; dal 25, il buio. Ciò che fa paura è la totale mancanza di idee non solo nel governo ma anche nell’opposizione; che si accapigliano su sciocchezze, per girare a largo delle cose serie. Ho il sospetto che, sotto sotto, tutti stiano aspettando un nuovo paracadute della UE o della BCE. Non mi sembra proprio aria. E qualcuno ha l’impudenza di dire che stiamo meglio della Germania!!!!

  5. Firmin

    Mettiamo pure una pietra tombale sulla costituzionalità di provvedimenti sostanzialmente retroattivi come questi. Sulle pensioni è stato fatto di peggio impunemente. Mi chiedo solo come possa uno stato indebitato fino al collo come il nostro mettere a repentaglio la propria credibilità per qualche spiccio. Le stime sul costo dei bonus edilizi viaggiano sui 160 mld. (ma l’Enea ne conta solo 120) spalmati su 4 anni a legislazione previgente. Di questi almeno 50 sono già tornati nelle casse dello stato tra iva e Irpef del solo settore edilizio (quindi trascuriamo qualsiasi effetto indotto sul resto dell’economia). 33 mld. sono finanziati dal Pnrr sotto la voce del risparmio energetico e, incidentalmente, costituiscono il grosso della spesa effettiva di quei fondi (che non riusciamo a spendere). Il problema resta dunque coprire meno di 80 mld. (parecchi di meno secondo l’Enea), ovvero 20 mld. l’anno, che corrispondono circa all’ 1,5% del bilancio pubblico. Con questo provvedimento il costo annuale scende a 8 mln. ma si estende per 10 anni invece di 4. In compenso si mina la credibilità dello stato e si fanno fallire almeno 50.000 imprese edilizie (con relativi costi per naspi&co). È il tipico guadagno di Maria Calzetta (quella che quando andava a legna perdeva l’accetta).

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