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Un ascensore sociale al contrario per le giovani madri

Il calo della fecondità nei paesi occidentali è preoccupante, soprattutto in Italia. Ma qual è la relazione tra dinamiche di fecondità e opportunità occupazionali delle donne? Le giovani madri sono penalizzate, in particolare quelle di origine borghese.

Le opportunità di lavoro delle donne

Tra i suoi numerosi primati, l’Italia si distingue nel panorama internazionale per il significativo impatto dell’origine sociale sulle opportunità di vita degli individui.

Può dunque sembrare controintuitivo che le donne nel sud Europa mostrino tassi di “mobilità intergenerazionale” superiori, nonché in crescita, rispetto agli uomini. Vi è, quindi, maggiore diversità tra le occupazioni dei genitori e delle figlie rispetto al binomio genitori-figli.

Se non sorprende quanto a valori assoluti (perché fenomeni come la crescita massiccia del settore dei servizi hanno creato lavori differenti rispetto al passato), sorprendono invece i tassi relativi, ovvero le chance di ottenere un certo livello occupazionale data l’occupazione dei propri genitori.

Alla luce di ciò, ci si domanda se la maggiore disgiunzione tra i lavori dei genitori e delle figlie, rispetto a quelli dei figli, segnali un più alto grado di libertà – o addirittura di eguaglianza e valorizzazione del merito – nelle opportunità delle donne italiane rispetto agli uomini. Per rispondere alla domanda, è necessario inquadrare i risultati femminili nel mercato del lavoro anche rispetto alle dinamiche di formazione familiare. Infatti, il binomio lavoro-famiglia è particolarmente gravoso per le donne in un contesto, come quello italiano, di scarsa attenzione istituzionale alla conciliazione di questi aspetti di vita. Viene quindi naturale chiedersi quanto e come le dinamiche di “mobilità” femminile siano influenzate dalle scelte di fecondità.

Il lavoro dei genitori e quello delle figlie

Per dare una risposta a queste domande, la figura 1 mostra lo status occupazionale medio delle donne italiane lungo i primi 15 anni di carriera per diverse coorti di nascita. A tal fine sfruttiamo un indice (Isei) che assegna un punteggio (da 16 a 90) a ogni lavoro sulla base della capacità di quel lavoro di massimizzare lo stipendio medio dato il livello d’istruzione richiesto. Per semplificare, maggiore è l’indice, più elevata è la remunerazione dell’occupazione. Per esempio, un giudice ha un punteggio di 90, un addetto delle pulizie 16 e un addetto alle vendite di un negozio 45. Le stime sono suddivise per classe occupazionale più elevata dei genitori e storia di fecondità delle figlie, distinguendo tra (i) donne che non completano la transizione alla maternità, (ii) donne che diventano madri a un’età inferiore rispetto all’età mediana del primo figlio per la coorte di nascita di riferimento e (iii) donne che diventano madri dopo l’età mediana. Per definire le classi occupazionali (dei genitori e delle figlie), seguiamo la classificazione Esec (European Socioeconomic Classification), la quale raggruppa (in pochi macro-gruppi) occupazioni che richiedono le stesse competenze, danno ai lavoratori lo stesso grado di autonomia e portano a remunerazioni simili.

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Nella coorte di donne nate tra il 1930 e il 1950 e in quella delle nate tra il 1951 e il 1970 si osserva un aumento degli ottenimenti occupazionali medi per chi proviene dalla classe media e operaia (in arancio e rosso, rispettivamente), un risultato attribuibile al crescente numero di donne altamente istruite in quel periodo. Si osserva invece un peggioramento degli ottenimenti occupazionali lungo le coorti per le donne provenienti dalla classe più abbiente (in blu), primariamente per coloro che diventano madri comparativamente presto.

Figura 1 – Ottenimenti occupazionali (Isei) medi delle donne italiane per classe d’origine.

Nota: L’indice Isei indica lo status socioeconomico dell’occupazione, con un punteggio da 16 a 90. La classe d’origine è costruita seguendo il modello Esec.
Fonte: Elaborazione degli autori su dati retrospettivi Istat (Famiglia e Soggetti Sociali 2016).

Risultati molto simili si hanno guardando all’associazione tra la classe occupazionale dei genitori (origine) e quella delle figlie (destinazione). La figura 2 mostra come le donne italiane con un’origine elevata (in blu), specialmente se diventano madri in giovane età (la colonna “giovani madri”), corrano un rischio sempre maggiore di “mobilità intergenerazionale” verso il basso. Infatti, le loro probabilità di avere un’occupazione di classe borghese, come quella dei loro genitori, si sono significativamente ridotte lungo le coorti di nascita, tanto che nella coorte delle nate tra il 1971 e il 1985 non troviamo più differenze sostanziali tra donne di diversa origine rispetto alle (comunque basse) probabilità di ottenere un lavoro di classe borghese. Per di più, le giovani madri con un’origine elevata hanno circa il 50 per cento di probabilità di svolgere un lavoro attribuibile alla classe operaia.

Figura 2 – Probabilità di accesso delle donne italiane a diverse classi occupazionali, per classe d’origine.

Nota: Le classi d’origine e di destinazione sono costruite seguendo il modello Esec.
Fonte: Elaborazione degli autori su dati retrospettivi Istat (Famiglia e Soggetti Sociali 2016).

Il fatto che il rischio di “mobilità” discendente per le donne italiane sia un fenomeno particolarmente accentuato per il gruppo delle giovani madri getta luce sulla relazione tra scelte di fecondità e (mancati) ottenimenti occupazionali. Ci si potrebbe aspettare che le donne provenienti da un contesto borghese abbiano accesso a migliori mezzi (economici, di network, motivazionali) per conciliare efficacemente lavoro e famiglia e investire in una carriera e che sia almeno alla pari con quella dei genitori. Perché è invece proprio questo gruppo di donne a non riuscire a mantenere livelli occupazionali simili a quelli dei genitori?

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Da un lato, la scelta di avere un figlio a un’età comparativamente giovane potrebbe indicare meccanismi di autoselezione che portano le donne orientate verso la famiglia (e meno al lavoro) a entrare in occupazioni sub-ottimali rispetto alle loro potenzialità di partenza. Alternativamente, le dinamiche di fecondità e quelle occupazionali potrebbero risultare dalla persistente rilevanza di norme e comportamenti tradizionali di genere che associano la donna a compiti di cura intra-familiari, riprodotte dalle caratteristiche istituzionali del contesto italiano. Anche se tali norme sono in vigore per l’intera popolazione (femminile), se ne osservano le conseguenze negative specialmente per chi ha qualcosa da perdere, in questo caso le figlie della classe borghese.

In ogni caso, risulta evidente che la maggiore “mobilità” delle donne italiane non sia interamente determinata da più opportunità per chi proviene da contesti meno avvantaggiati. In gran parte è infatti discendente (specialmente per chi ha più da perdere) e intrinsecamente legata a scelte di fecondità. Se è il risultato del contesto culturale-istituzionale, come la presenza di questi meccanismi specialmente nelle realtà familiste del sud-Europa porta a pensare, svela quanto un assetto politico e normativo che continua a delegare alle donne le responsabilità di cura possa essere nocivo per le opportunità occupazionali e di vita delle donne stesse, delle loro famiglie e delle generazioni future. Trovare una soluzione all’“inverno demografico” rimane una priorità, ma non possono essere le giovani madri a pagarne il prezzo.

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  1. Savino

    I genitori, in proporzione, hanno sudato molto meno l’agio della posizione professionale rispetto alle figlie. Una volta, tra gli anni ’50 e ’70, molte professioni importanti non richiedevano nè la laurea nè una particolare qualifica.

  2. Luca Neri

    I risultati sono affetti a un enorme bias di selezione determinato dalla differente dinamica del tasso di occupazione attraverso i periodi storici analizzati, nonché dalla variazione dei salari che hanno visto un progressivo appiattimento verso il basso con un ben documentato schiacciamento delle retribuzioni alte (associato a bassissima e stagnante produttività del paese). Occorrerebbe confrontare questi risultati con quelli maschili per avere un maggior controllo dell’effetto di coorte storica.

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